«Non è che “Se tiri troppo, la corda si spezza”. Il fatto è che se tiri troppo la corda, io lascia la presa e tu ti ritrovi con il culo per terra»

 (dal web)

Le era venuta voglia di buttare tutto per aria e dire solamente “Basta!”, quell’orda di stoltezza le aveva tolto il fiato, non riusciva più a tracciare il confine tra giusto e sbagliato, volere e potere, diritto e dovere, dare e ricevere, dire e fare, essere e avere.

Aveva caricato una tale dose di nevrastenia da essersi violentata alla ricerca mentale di tutte le droghe possibili e immaginabili che potessero sedarla: in quella circostanza, poco abili domatori avevano preso un felino a metà giornata, quando era sazio ma non satollo, lo avevano messo in gabbia ed impunemente avevano iniziato a passargli sotto il naso dapprima fette di carne che parevano freschissime, scatenando il suo appetito, per poi offrire merce avariata.

Il felino era in carcere, non poteva esplodere e, peggio, era un felino senziente: doveva farsi violenza, spingere con il peso del raziocinio contro la forza prorompente che voleva a tutti i costi scatenare lo scatto di zampe e artigli. Doveva tacere, fingere che il sangue non pulsasse in ogni dove alla velocità della luce, controllare il bollore che pervadeva ogni centimetro di pelle.

In due parole: era incazzata.

In tre parole: era incazzata e delusa.

In quattro parole: era incazzata, delusa e ferita.

Da quel giorno, intanto, era trascorso qualche giorno. Aveva ritrovato qualcosa che l’aveva riportata indietro e le aveva fatto ricordare l’accaduto: ricordare, non riprovare. E cambiava molto: adesso guardava il felino dall’esterno, ma non ne percepiva più le pulsioni. Sapeva che quell’istinto era lei, non si poteva certo sfuggire ed ora non era sopito o cancellato. Restava senziente, come sopra, aspettava solo il momento propizio per venire fuori, perché ad un animale in gabbia si può chiedere di non scattare immediatamente, ma non di soprassedere in eterno.

Gli animali possiedono il dono della lealtà a loro stessi e ai loro simili: dalla sua parte umano-bipede aveva mutuato solo il potere di aver imparato ad aspettare.

E quello dunque stava facendo: aspettando il momento, già decretato, per poter mettere in fila quattro parole ben sistemate, taglienti come lame infuocate, “sassi precisi e aguzzi pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese”… esattamente come avrebbe detto Bersani, che però forse non sapeva che spesso gli interlocutori non sono così indifesi come appaiono.

Nel mentre, al netto delle elucubrazioni, prendeva le distanze dal mondo circostante: passavano i giorni e vedeva che l’impegno profuso nella sua quotidianità veniva regolarmente coperto sempre e comunque da quell’ego di troppi altri, messi così a caso: poteva prenderli dappertutto, erano presi solo da sé stessi.

Dunque si chiese come mai fosse passato quell’impeto omicida di qualche giorno prima e la risposta la trovò subito: in quell’occasione “l’io pidocchio” non aveva offeso lei, ma il suo lavoro, le persone che ne erano coinvolte, quelle più lontane e quelle che amava. Qualcuno aveva toccato malamente e maldestramente il suo mondo… ergo, non era intaccare lei che la faceva diventare minacciosa e pericolosa.

Ciò che contava era che alcuno, gratis, si permettesse mai di ledere, anche solo con un graffio, chi faceva parte di una qualsiasi giostra lei avesse faticosamente costruito: la strenua difesa del suo prossimo e la parsimonia di sé.

Un ragionamento semplicissimo e tremendamente faticoso: scelse che bastava così. Ciò che aveva deciso di dover regolare, lo avrebbe regolato, ma per tutto il resto riusciva, per il momento, a nutrire solo una sorta di annoiato ottundimento.

Quindi, al solito, una sola soluzione: fatti e non parole. Iniziò ad agire, portò a casa i primi risultati mentre pregustava lo scontro finale con il sorriso. Perché era così che andava e doveva andare: quando sorrideva, non c’era assolutamente niente altro da aggiungere.


Fontehttps://pxhere.com/it/photo/1174841
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.