
Intervista a Luigi L’Astorina, il Totò di “Io speriamo che me la cavo”
Fantozzi non c’è più. Fantozzi non morrà mai. Lo scorso 3 luglio ci ha lasciato un mito del cinema italiano. Paolo Villaggio non è stato, infatti, solo un semplice comico, ha indossato la maschera del disadattato sociale per denunciare le angherie perpetrate ai danni dei più deboli, dei lavoratori sfruttati e dei bambini. Ho chiesto a Luigi L’Astorina, il piccolo Totò di “Io speriamo che me la cavo”, di regalarci istantanee letterarie del Villaggio uomo. Ne è venuto fuori un affresco diverso dal solito, un quadro di verità nato dal pennello di Marcello D’Orta ed esposto nel museo dei capolavori di una macchietta che, inevitabilmente, già ci manca.
Ciao, Luigi, nessuno meglio di te può testimoniare che Paolo Villaggio non è stato solo Fantozzi: a venticinque anni dall’uscita di “Io speriamo che me la cavo” che ricordo conservi di quella esperienza?
Un ricordo meraviglioso. Quel film ha cambiato la vita di tutti noi, almeno finchè è durato… Poi, ognuno ha preso la sua strada. Ora faccio il deejay e produco house, sai, la musica è la mia passione e vivere facendo ciò che mi piace mi rende felice, quindi, non mi lamento.
Scorgo nelle tue parole un velo di malinconia. Ti manca il mondo del cinema?
Tantissimo. Ho conosciuto artisti con la “a” maiuscola, persone che mi hanno insegnato a capire la differenza tra successo e dedizione, tra sterile celebrità e massimo impegno.
Persone come Paolo Villaggio. Cosa hai provato quando ti sei ritrovato al suo cospetto?
Imbarazzo e ammirazione. Avevo di fronte un uomo totalmente diverso dal Fantozzi che tutti conoscevamo. Villaggio era molto serio, composto e professionale, un vero Maestro!
Sei stato deluso da questo primo approccio?
All’inizio, sinceramente, sì. Quando la regista Lina Wetmuller ci ha scritturati, noi bambini pensavamo che il set fosse un gioco e che Villaggio sarebbe stato il nostro giullare. Al contrario, abbiamo apprezzato le qualità umane di un grandissimo attore, un comico attento e meticoloso, un cabarettista d’altri tempi…
In merito alla tua personalissima esperienza, cosa ti ha spinto, fin da piccolo, ad intraprendere la carriera sul grande schermo?
Diciamo che è avvenuto tutto molto velocemente. Partecipavo ad un programma televisivo “Rete Oro”, una specie di Zecchino d’Oro, in cui ballavo la breakdance. Successivamente sono stato scelto, assieme ad altri duemila ragazzi, per il casting di “Io speriamo che me la cavo”. Dopo una prima scrematura, siamo diventati 40 e, poi, 14, i protagonisti della classe elementare di Corzano.
È difficile a quell’età essere sotto i riflettori?
Abbiamo frequentato per tre mesi una scuola di recitazione con professori del calibro di Stefano Amatucci, abbiamo imparato a memoria un copione di 265 pagine e abbiamo girato come robottini. Siamo stati invitati a trasmissioni quali “Seratissima” e “Domenica In”, quando a presentarlo era Toto Cotugno. Vengo da un quartiere duro come Rione Sanità, non mi sono mai montato la testa, sbagliando, perchè forse avrei dovuto…
In che senso?
Ho curato poco la mia immagine, altri ragazzini lo hanno fatto. Dopo “Amico mio”, fiction con Massimo Dapporto, e “La squadra”, le mie partecipazioni televisive sono scemate. Quando vedo in tv gente che fatica ad esprimersi, il rammarico aumenta.
Senti ancora i tuoi compagni di pellicola?
Certo, quasi tutti!
Tornando a Villaggio, sappiamo che il vostro era un rapporto più stretto degli altri. Puoi raccontarci qualche aneddoto del Paolo privato?
Personalità molto forte e schiva. Credo che a lui abbia giovato circondarsi di bambini, era in un momento della sua vita molto particolare, lo si percepiva. Voleva svoltare dalla pretesa dello spettatore di assistere eternamente ad uno spettacolo di Fantozi, aveva tanti progetti in cantiere. Mentre girava “Io speriamo che me la cavo”, stava studiando già la sceneggiatura del suo prossimo film “Il segreto del bosco vecchio” di Ermanno Olmi, e allora capitava che sbagliasse le battute o confondesse le scene. In quel caso toccava a noi dargli il là affinchè si rimettesse sui binari giusti.
La scena finale del film è stata girata alla Stazione di Andria, teatro, lo scorso anno, del tragico incidente fra treni che ha provocato la morte di 23 persone. Come ti parve, allora Andria?
Se la memoria non mi inganna, alloggiammo in un albergo con finestre di cristallo. Nonostante fosse inverno inoltrato, indossavamo indumenti primaverili, c’era un freddo tagliente ad Andria quel giorno, ma Villaggio ci disse: “Resistete, gli attori non soffrono il caldo o il freddo!” Parole che tuttora mi regalano la piacevolissima sensazione del calore umano.