L’alfabeto di Dante
Dopo aver attraversato i sette gironi del secondo regno, ad ognuno dei quali corrisponde un vizio capitale (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria), il pellegrino raggiunge la parte più alta della montagna purgatoriale e quindi la «divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII, 2) dell’Eden. Qui lo accoglie «un’aura dolce, senza mutamento» (v. 7) che non è solamente la descrizione di un paesaggio bucolico, ma simbolo di quella pace autentica che è la condizione propria del primo uomo. Tutto il Paradiso terrestre, a partire da Matelda, la «donna soletta» che incarna l’innocenza, è la rappresentazione di quella felicità perduta col peccato di Adamo ed Eva. Venendo alla vita, l’uomo anela a questa felicità. Essa è una conquista preziosa e fragile, da custodire nel rapporto col Creatore e le cose create. Tale armonia, però, di colpo si frantuma a causa del peccato. Così spiega Matelda:
Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’a lui d’etterna pace.
Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco». (Purg. XXVIII, vv. 91-96)
Parola chiave di questi versi è «pace». Dio aveva creato l’uomo per la pace, ovvero per quello stato di felicità nel quale ogni desiderio è perfettamente appagato. Difficile non accostare a questi versi la «bestia senza pace» (Inf. I, 58), la lupa che nel primo canto dell’Inferno fa ritornare indietro il pellegrino nella selva, mentre egli tenta faticosamente di progredire verso «il dilettoso monte». (Inf. I, 77). Se nella selva la «bestia senza pace» rappresentava i vizi che non possono rendere felice l’uomo, quali gli averi, le ricchezze e gli onori, qui vi è l’«etterna pace» di un mondo senza traccia di male. La vita dell’uomo poteva essere un «onesto riso e dolce gioco»; ma per sua colpa -si noti la duplicazione «per sua disfalta» – essa è ora votata all’infelicità. Continua Matelda:
«Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice». (Purg. XXVIII, vv. 139-144)
Dante, che prima ancora di essere teologo è soprattutto poeta, in una mirabile sintesi tra poesia teologia, tra mito e fede, afferma che si riferiva al giardino dell’Eden quell’età dell’oro cantata dai poeti dell’antichità classica. Qui il primo uomo aveva dimorato solo per poco tempo. Si notino le tre parole in rima felice – radice – dice. Esse tornano, non a caso e nello stesso ordine, nel racconto di un’altra famosa donna che il lettore aveva incontrato nel girone dei lussuriosi dell’inferno, Francesca:
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice». (Inf. V, vv. 121-126)
Se le parole di Matelda sono la descrizione poetica e teologica dell’innocenza ormai perduta, di quello che doveva essere e non è, Francesca incarna questa dimensione esistenziale nella sua stessa vita e, più precisamente, in un solo atto che l’ha rivelata per sempre alla coscienza sua e del lettore della Commedia. Come un regista dei nostri tempi, il poeta cattura in un solo fotogramma l’intera esistenza della donna, e in quel preciso momento, in quell’impeto di passione che l’ha legata per sempre a Paolo, concentra il senso della sua vita. Ora che è all’inferno, ed ha scoperto il limite di quell’amore peccaminoso che è stata incapace di controllare, Francesca riconosce la sua «miseria» e prova dolore nel ricordo del «tempo felice». Per lei la felicità è solo un fatto del passato, uno stato irrimediabilmente perduto, che però sopravvive in lei come ricordo, ad aumentare la sua pena.
Matelda ha detto che la vita dell’uomo poteva essere un «onesto RISO», divenuta «pianto» e «affanno» a causa del peccato. Francesca, mentre viene a conoscenza del «disiato RISO» dei protagonisti del libro che sta leggendo con Paolo, si lascia andare alla passione e di colpo incarna quell’infelicità descritta da Matelda. Non a caso sono proprio il pianto e la sofferenza -«affanno»– a contrassegnare le anime dei lussuriosi:
«O anime affannate,
venite a noi parlar,
s’altro nol niega» (Inf. V, vv. 80-81)
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice». (Inf. V, vv. 124-126)
La miseria descritta da Matelda è incarnata nella storia di Francesca, una donna che ha rinchiuso l’orizzonte largo e luminoso della felicità nella gabbia di una passione oscura.