In cui spiritualità e precarietà sono la stessa cosa

C’è chi dice, sommessamente e con affanno, che questa settimana santa sarà diversa. C’è chi posta, nostalgico, le foto di processioni che non ci saranno e di eventi che salteranno.

C’è chi, invece, si organizza e si reinventa come può. É piuttosto comprensibile. E non c’è nemmeno da stupirsi se, alle porte delle ricorrenze pasquali, i sentimenti di smarrimento risultino maggiorati: il rito e la festa hanno lo strano potere di amplificare ogni cosa.

Non sto qui a dire che “il tempo presente è un’occasione preziosa per imparare”. Non serve neanche precisare, con le solite, accattivanti, ma usurate e disumane parole, che “quest’anno vivremo un triduo pasquale più autentico di quello degli altri anni”. Mi sembra una mancanza di delicatezza verso chi ha perso un parente o un amico e l’unica cosa che deve imparare è piangerlo senza averlo salutato, in un venerdì di passione esistenziale destinato a durare parecchio, perché un lutto privato della vicinanza e della gradualità del distacco è più difficile da elaborare.

Non sempre dalle cose che accadono c’è da imparare; spesso urge, più che altro, disimparare i luoghi comuni. Non sempre possiamo sentirci alunni diligenti ai primi banchi della scuola della vita, con la mano alzata e la risposta pronta e servita, davanti agli occhi stupefatti dei compagni più indietro. Forse, questa «è l’ora» (Gv 17.1) in cui dobbiamo lasciare le prime file e andare a sederci in silenzio vicino a loro, per ascoltare tacendo, per imparare decostruendoci, per passare dalla tanto bramata lezione di vita al difficile gesto della compassione grata e gratuita.

È l’unico rito possibile, è il solo triduo vivibile adesso, considerando che esso, in realtà, è già iniziato. Da settimane c’è un giovedì santo di servizio e umiltà negli ospedali. Da settimane c’è un’agonia silenziosa e sudata nelle case di chi non sta lavorando, di chi ha un disabile da accudire, di chi ha troppa solitudine da gestire o, peggio, di chi attende qualche notizia dei propri malati o dei propri figli, medici e infermieri, e volentieri «passerebbe il calice» (Lc 22.42). Da settimane c’è una processione continua e incredibile di morti, soli e senza compagnia neanche nell’ultimo viaggio.

La condivisione sincera di questa spaventosa, disonesta precarietà è attualmente l’unica preghiera possibile, e non solo per la comunanza etimologica dei termini. Sentire impressa nella propria carne questa precarietà significa coltivare una preghiera che non disumanizza, che non cerca il proprio interesse di “laico impegnato ingiustamente privato dei propri diritti”, che non chiede nessun prodigio. Questa preghiera è la capacità di intessere legami con chi non si conosce, di accogliere norme stringenti per amore di chi non ce l’ha fatta o non ce la sta facendo, anche a prezzo di vedere completamente sgominate le proprie abitudini, incluso il culto.

Questo non significa che il culto non serve, o che non possiamo sentire il peso della privazione dei riti della Pasqua. Significa, semplicemente, che le forme e le norme sono a servizio delle persone, non il contrario, e che nessuna messa o processione può essere vissuta come fuga dalla storia. La preghiera di Gesù al Padre, per i discepoli e per tutti, lo dice chiaramente: «non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca» (Gv 17.15).

«Viene l’ora» in cui tutti, credenti e non, assidui frequentatori di chiese e cercatori sulla soglia, sono chiamati alla responsabilità di non cercare mondi ideali. «Viene l’ora» in cui spiritualità e precarietà sono la stessa cosa. «Viene l’ora» di altri riti, di altre preghiere. «Viene l’ora» in cui l’adorazione della croce del Risorto deve cedere il passo all’adorazione di tanti, troppi ancora crocifissi, in cerca di un gesto convinto sia di poter dare, sia di dover imparare nient’altro che umanità. «Viene l’ora. Ed è questa» (Gv 5.25).

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