«Lo so come ti senti. È come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l’unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti»

(Andrea De Carlo, “Due di due”)

Non che ci fosse molto di interessante da dire: Lisa era al telefono con il suo capo, quello aveva il tono sconfortato e cercava di celarlo, ignorando che finché era con lei che parlava, ogni tentativo in tal senso sarebbe stato vano. Era empatica, sapeva cosa provavano gli altri e, peggio, finiva per portarselo addosso, anche quando non era della stessa idea.

In quel caso, però, era seccata quanto lui: in sostanza capo e sottomessa (che è termine funzionale, ma non aderente alla realtà) erano d’accordo. Tutto poteva chiudersi con un: “uffa” e non avessero dovuto avere rispetto per i loro ruoli, si sarebbero seduti a bere una birra, dicendoselo molto chiaramente.

Chiusa la telefonata con difficoltà, perché davvero faticavano a salutarsi senza potersi comunicare l’effettiva sostanza dei loro pensieri, la scocciata donzella decise di mettersi al lavoro e nel prendere il materiale dalla sua fantastica borsa pesante otto tonnellate, fu costretta a togliere di mezzo il libro di turno (nel senso che non poteva esserci nessun turno che non prevedesse un qualsiasi libro; non si poteva mai dire, fossero capitati stalli temporali nella giornata, sarebbe sempre tornato utile). Eccolo là, Andrea De Carlo, Due di due. Chi lo aveva messo lì dentro? Boh, la risposta perfetta per ogni domanda.

Immediato ritorno al quel lo so come ti senti, che in prima battuta l’aveva fatta sentire solo spiata, in realtà. E due scene: la copertina di un altro libro su cui troneggiavano due pesci rossi che si fissavano da dietro il vetro, ciascuno nella propria ampolla (quell’immagine divenne improvvisamente asfissiante, poiché vera) e il tavolino di un bar con due persone sedute. Quel giorno lontano aveva fatto una cosa che non si fa: origliato la loro conversazione.

L’ho già detto che era empatica e quello che trasmettevano quei due era stato tipo il tram che aveva investito Frida Kahlo. Lei era seduta con le gambe accavallate e lo fissava come ogni uomo al mondo credo sogni di essere guardato: semplicemente l’osservava dentro, non parlava e gli tendeva la mano sotto al tavolino. Soffriva. Lui anche, ma parlava e disse qualcosa di questo tipo: “Mi vedo già fra vent’anni, quando ti sarai giustamente stancata e non avrai potuto più aspettare niente e nessuno. Cosa sarò io, fra vent’anni? Avrò perso tutto quanto ora mi rende la vita impossibile da vivere ed a cui non posso rinunciare, ma lo stesso coglione che sono ora, con la differenza che sarò definitivamente solo, perché tu, proprio tu, anche tu, sarai andata via. Un coglione”.

Sembravano proprio i due pesci nell’ampolla di quell’altra copertina, nonché l’incarnazione di quei pensieri di De Carlo: erano questo, a quel tavolino. Due di due.  E Lisa avvertiva nettamente che non avrebbero potuto darsi pace. Quella donna, qualsiasi cosa significasse quel discorso, non avrebbe mai lasciato il suo posto, nemmeno dopo vent’anni. Se lo avesse detto parlando, sarebbe stato meno chiaro di quanto non trasparisse dai suoi occhi e da quella mano che stringeva di più ad ogni sillaba che ascoltava.

Il nodo nella  gola di Lisa, le facevano male le corde vocali, ingoiava saliva e cercava di distrarsi da quella scena. L’unico modo fu smettere di osservarli, alzarsi con la sua solita presunta aria di superiorità, lasciare a metà il suo caffè, pagare ed uscire, sola come era entrata.

L’unica era rompere il vetro: tornò di colpo lì dove i suoi ricordi l’avevano interrotta. Era a casa sua, stava per mettersi a lavorare.

E se hai paura di farti male: aveva una spalla fratturata, fissò il tutore, ma no, lei non aveva rotto nessun vetro, in effetti.

Prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti: quello sconosciuto al tavolino del bar e quella donna lì con lui.

Cosa avrebbe dato per incrociarli ancora una sola volta, quanto avrebbe voluto conoscere le vicende di quel romanzo che forse ancora nessuno aveva scritto.

Se le fosse stato concesso un regalo così, avrebbe potuto anche rinunciare a leggere qualsiasi libro di turno e questa volta no, non si sarebbe alzata, certa com’era che qualsiasi fosse stato il climax di quella vicenda, quei due strani personaggi non erano stati disegnati per insegnarle nulla circa il significato del termine epilogo.

Due pesci di due, in due ampolle: no, non erano una conclusione. Almeno non finché Lisa era rimasta in quel bar e non lo sarebbero per lei stati fino a che, per un qualche caso fortuito, non li avesse ritrovati, magari nello stesso bar, a dirsi chissà cosa.

Di suo, ricordò di aver regalato quel libro con i pesci a due persone, in passato. La prima, dopo averlo terminato, le disse: ti ringrazio per conoscermi così tanto da aver pensato dovessi leggerlo. La seconda non disse nulla, ma le fece avere una foto di quella copertina, senza aggiungere commenti, dopo moltissimo tempo.

Smise di fantasticare: non solo incontrava sconosciuti fuori norma, si sceglieva anche amicizie che niente avevano a che fare con il mondo banale.

Al lavoro, Lisa. Forza.

Ti aspettano scomode comodità, luminose strade buie, musiche afone ed affollatissimi deserti. Magari avrai fortuna e ne uscirai sorpresa.

Sorrido, Lisa dei miei pensieri e dei miei racconti: se i colpi attesi non saranno così forti da rompere il vetro e rimanessi chiusa là fuori, vivendo così il tuo finto funerale, io ti prometto che arriverò come desidereresti arrivasse chiunque a quell’evento, indossando il più bel vestito rosso che possiedo e che mai, ancora, ho trovato il coraggio di mettere.

Rosso, come quei due pesci.

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FontePhotocredits: Designed by Eich
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.