Yuleisy Cruz Lezcano è una poetessa di origine cubana, italiana di adozione. Da poco ha pubblicato il suo ultimo libro “Di un’altra voce sarà la paura” (Leonida Edizioni), una silloge pensata per dare voce alle donne vittime di violenza, puntando all’educazione all’affettività e all’empatia, con idee e spunti per prevenire la discriminazione di genere.
Ciao, Yuleisy. Perché hai scelto di scrivere la silloge “Di un’altra voce sarà la paura”?
Inconsciamente volevo parlarne da tempo, visto che per 12 anni ho lavorato nel consultorio famigliare a Bologna, e ho seguito, tra le tante cose, i colloqui per l’interruzione di gravidanza, secondo la legge 194 del 1978, che descrive con chiarezza le procedure da seguire in caso di richiesta di interruzione di gravidanza. La necessità di garantire un accesso sicuro ai servizi, la necessità di ascolto, empatia e supporto per affrontare gli aspetti emotivi e logistici del processo, richiedono oltre che competenza, istruzione e apprendimento personali, dedizione e conoscenza degli strumenti psicologici per fornire risposte adeguate: ecco perché ho potuto usare nel libro tale bagaglio di conoscenze. Devo aggiungere che, durante i colloqui eseguiti, in ambito lavorativo, si è svegliata la mia curiosità per comprendere i traumi da stupro e le sue conseguenze a breve e lungo tempo.
Oltre a questo alcune amiche, in modo inatteso, mi hanno confidato di avere subito violenza, confermando ancora una volta che la violenza può colpire qualunque persona ed è più frequente di quello che di solito si immagina o viene raccontato e denunciato. Comunque ho capito però che era arrivato il momento di parlarne dato la situazione attuale, in cui gli episodi di violenza sembrano nettamente aumentati, e non so se è solo una percezione oppure se il fatto che se ne parli di più sia dovuto a una maggiore sensibilizzazione riguardo il fenomeno, al fatto che ora si denunci di più oppure all’esasperazione della cronaca che fa delle storie di violenza una sorta di romanzo a puntate, che invade perfino i programmi televisivi, le conversazioni al bar e i commenti nei social. Sicuramente tutte queste cose insieme mi inciso sul fatto che io mi decidessi a parlarne. Ho sentito, quindi, per tutta la suddetta premessa il bisogno di raccontare queste storie, perché sono storie vere. Infatti, il libro contiene storie di cronache, storie che ho ascoltato da donne che hanno subito violenza. Sicuramente, lo strumento poetico è lo strumento che sento più congeniale alla mia penna per svegliare coscienze ed emozioni. La poesia è uno strumento efficace perché crea immagini insolite, ma avrei potute usare la narrativa, perché abbraccio il pensiero espresso da Gabriele García Marquez quando dice che “I romanzieri dovrebbero essere ogni volta più poeti e i poeti ogni volta più romanzieri”. La forza di questa mia silloge non radica nella sua avanguardia estetica, ma nel suo potere quasi ripugnante di evidenziare la violenza, la disuguaglianza o il vuoto nello sviluppo umano. Per questo uso delle figure retoriche, usando molteplici metafore che rinviano sempre a un mondo crudo, ad un mondo che materializzo e rendendo corporea la violenza, con immagini vive, quasi offrendo una personificazione della violenza stessa. Forse il lettore attento assemblerà tutti gli elementi come per esempio gli artigli o tutti gli animali, non a caso nella mia raccolta si ritrova anche l’elemento dell’animalità, in senso positivo e anche senso negativo: nello stesso tempo gli animali evocano e rinviano alla libertà agognata a tutti costi e anche conquistata dalla donna, ma anche animali negativi che rinviano alla violenza. Le immagini forti che utilizzo sono immagini che danno corpo, rendono materiale la violenza. Quello che la cronaca racconta con un certo distacco e solitamente con una sola formula violenza efferatezza e tutti i sinonimi possibili, io, invece, cerco quasi come uno scultore di dare forma, corpo e una struttura alla violenza. Quindi do alla violenza degli occhi, delle braccia, una forma che magari cambia in base alle diverse storie, ma che comunque metto insieme con un singolo filo e con una singola voce poetica. Ecco che le diverse storie mostrano i diversi volti così come Proteus quella divinità che muta però che è sempre unica: la violenza. in questo libro non solo creo mondi nuovi, ma ho cercato di puntare il riflettore sulla poesia riflessiva, pertanto molte volte si avvicina alla prosa, perché induce alla riflessione.
Credi sia ancora possibile prevenire la violenza di genere?
Certamente, credo proprio che si possa prevenire la violenza di genere, ma per fare questo è molto importante la cultura e soprattutto l’educazione. Credo sia necessario promuovere e inoculare l’educazione verso relazioni di rispetto, cosi come la parità, in età precoce, lavorare dal punto di vista educativo con i giovanissimi con interventi di educazione all’affettività, all’empatia, lo sviluppo di un’autostima equilibrata volta ad evitare la comparsa di stereotipi di genere a livello della comunità scolastica, incidendo con politiche pubbliche che lavorino sul linguaggio, sui valori di parità, intervenendo su più fronti. Bisogna educare a livello istituzionale con corsi, attraverso riviste, giornali, mezzi di diffusione di massa per operare il cambio di mentalità. Bisogna che si mobilitino risorse da impiegare nella ricerca, volte a fornire informazioni sui comportamenti degli uomini e le diverse forme di manifestare la violenza. I programmi educativi devono essere accompagnati da riforme giuridiche politiche. Infine, credo che se la società assume consapevolezza sul fenomeno e si interviene in età precoce, ci possa essere un’evoluzione culturale importante. Ben vengano le fondazioni, le istituzioni, le ONG, i telefoni di ascolto, le varie associazioni ed entità che sono nate e continuano a nascere per prevenire ed eliminare il fenomeno, ma comunque tutti se abbiamo le conoscenze adeguate possiamo cogliere dei messaggi di allarmi per prevenire la violenza. Ci sono iniziative importanti tra i giovani, sono per esempio nate associazioni e gruppi di ascolto per gli uomini in cui si danno consigli ad altri uomini che dimostrano di avere comportamenti possessivi nelle relazioni di coppia o quando vengono lasciati. La comunità intera può avere un ruolo importante nella prevenzione, perché l’indifferenza è già una forma di consenso e tolleranza che normalizza la violenza di genere.
Sicuramente tramite la silloge Di un’altra voce sarà la paura la mia scrittura ha aderito in parte all’attivismo sia pur dal punto di vista narrativo, cercando un nuovo linguaggio educativo per promuovere l’azione sociale di trasformazione, e ho immaginato questa silloge come strumento da ampliare attraverso il mio viaggio itinerante per presentarlo in diversi luoghi, così di impiegare non solo la mia penna ma anche le mie conoscenze per la causa del cambiamento sociale, attraverso un’edu-comunicazione. La mia silloge così poco addolcita, concepita così cruda, con immagini forti unisce l’azione poetica ai fini dell’immediato intervento sociale, anche se così facendo, io ho rischiato che il lettore entrasse a spintoni nella crudeltà delle immagini, ma il fine era proprio una funzione sociale, lo sconvolgere tramite la mimesi e le teatralizzazioni dei racconti per educare. La gamma di espressioni presenti nel libro è da me utilizzata per canalizzare idee durante la presentazione del libro stesso. Quindi anche gli artisti possono impegnarsi per correggere lo squilibrio sociale, con immagini, con parole, usando varie materie prima. Perché come ho detto prima non ci si può girare dall’altra parte perché l’indifferenza è già una forma di consenso verso la violenza.
Riguardo alla violenza, la cultura è un nutrimento necessario per contrastarla e per la socializzazione umana. Attraverso la cultura l’individuo si libera delle visioni passive, adottando una visione condivisa e generosa della vita. Credo nel potere della cultura e credo sia un’alfabetizzazione etica e sociale, che porta a un’autonomia non individualista dell’essere umano, promuovendo una parità qualitativa e attributiva.
Quali e quanti progressi sono stati compiuti da Cuba nell’affrontare questa pratica?
Temo che essendo molto tempo che sono fuori dalla realtà cubana, sia difficile farne un’analisi legislativa e sociale precisa ed esaustiva. Dal 1992 vivo in Italia e anche se non ho perso i contatti con le mie radici quello che posso fare è raccontare non sulla base del vissuto e dell’esperienza ma sulla base dell’analisi di documenti e informazioni rilasciate dagli enti e istituzioni che si occupano del fenomeno. Sicuramente c’è una spinta sociale importante verso il cambiamento: la nascita di fondazioni e associazioni che con interventi educativi cercano di cambiare la mentalità dei giovanissimi; un ordinamento giuridico che si sta rinnovando continuamente, visto che dovrebbe essere attualizzato per rispondere al nuovo cambio costituzionale operato. Certo ancora a fine degli anni 80 veniva proposto dalle autorità il matrimonio riparativo come alternativa a un lungo processo dopo la denuncia se la vittima aveva meno di 16 anni. Attualmente, con la legge 143 del 2021, del processo penale, lo stato obbliga a proteggere le donne della violenza di genere in qualunque delle sue manifestazioni, a creare i meccanismi istituzionali e legali per farlo. I diritti delle vittime vengono descritti nell’articolo 141. Altre normative si sono susseguite alla modifica della costituzione, per esempio si è intervenuto nel codice famigliare, nel codice penale con disposizioni relative alla violenza di genere, specificamente è stato elaborato un anti-progetto del codice penale per meglio focalizzare i casi di violenza. In tale progetto si parla del femminicidio con l’articolo 344, in cui le sanzioni si sono drasticamente inasprite. Sicuramente questi cambi legislativi sono stati spinti dalle lotte femministe all’interno del paese, ma comunque esiste ancora in Cuba una cultura patriarcale che esercita la violenza come meccanismo di controllo, relazioni di potere, asimmetrie che generalmente si basano sulla dipendenza economica e la subordinazione patriarcale. Ed è poi sulla mentalità che bisogna adoperare il cambiamento, continuando a lavorare su più fronti dal punto di vista culturale ed educativo.
Che ruolo possono e devono assumere le Istituzioni nell’educazione all’affettività e all’empatia?
L’educazione all’affettività e all’empatia a partire già della tenera età è fondamentale. A livello degli enti scolastici bisognerebbe agire attraverso programmi centrati sulla parità e il rispetto degli esseri umani, in cui sia possibile sviluppare competenze per riconoscere e rifiutare il sessismo e le molestie, attraverso modelli che riproducano uno schema emozionale sano. Inoltre gli insegnanti, opportunamente preparati, dovrebbero riconoscere a livello scolastico le condizioni famigliari a rischio, incoraggiando il bambino a parlarne, cercando di sviluppare una mentalità volta ad interrompere il ciclo di violenze, attraverso lo sviluppo di abilità alternative alla violenza, che permettano di affrontare lo stress e risolvere i conflitti sociali con efficacia. Nell’ambito di questi programmi potrebbe essere utile l’incontro con pedagogisti, psicologi e anche con autori che hanno trattato la problematica. Un aiuto prezioso potrebbe essere quello di promuovere letture, film o usare la tecnologia per proporre modelli che ripropongano situazioni che mimino l’empatia, con un programma educativo integrato, in cui anche l’arte e il teatro potrebbe venire in aiuto, così come il lavoro in piccoli gruppi di condivisione di esperienze di gestualità e di solidarietà. La società deve lavorare moltissimo sull’uomo del domani, perché solo così faremo passi da gigante verso un’evoluzione più umana.
A chi dedichi il tuo lavoro?
Il mio lavoro è dedicato al lettore e il target va dai 14 anni in poi e, soprattutto, è dedicato alle vittime, che immagino come sopravvissute; dedico il libro anche a coloro che ora si trovano sotto terra, il loro male deve dolere a tutti ed è per questo che ogni racconto all’interno del libro ha un volto che perde il nome, perché è il nome di tutte noi, di tutte le donne frammentate. Certo non ho scritto per me stessa.