«Sia l’amore ad indicarti il cammino»

(Kahlil Gibran)

Amo Gibran sin da quando ero un ragazzo. Molti dei suoi versi hanno contribuito a scolpirmi l’anima (o comunque la si voglia intendere e chiamare).

Paradossalmente, questa è una ragione per cui tendo a limitare le occasioni in cui potrei citarlo, un po’ come faccio con la diletta Simone Weil. Voglio dire: non è che li citi poco; solo, li cito molto meno di quanto vorrei, perché mi vengono fin troppo spesso a fior di labbra.

Epperò questa volta, appena ritrovate le parole che ho posto in esergo, mi son detto: ecco il prossimo caffè!

Perché, vedi, caro lettore, adorata lettrice, io lo so che a molti sembro ingenuo e sognatore, per non dire vanesio. Sono cosciente che a tanti può piacere il mio modo di essere e di scrivere e a tanti altri no. Siamo tutti, prima o poi, ammirati o derisi, applauditi o denigrati. Apprezzati in pubblico e invidiati e diffamati alle spalle.

Solo che io ho la fortuna di essere giunto ad un’età in cui penso di poter dire: me ne infischio.

Me ne infischio dei consensi, me ne infischio di chi applaude oggi e grida “Barabba” domani. Di chi lancia la pietra e nasconde la mano. Certo: non è che me ne infischi in senso assoluto, perché sono fatto di carne anche io e mi fa male ricevere ferite, un po’ come a tutti, penso.

E tuttavia passo oltre. È come dire che non credo a quell’impostore del successo e nemmeno a suo fratello il fallimento, bugiardo pure lui, l’uno non meno dell’altro. Non credo neanche al tradimento: penso sia un problema dei traditori, non mio. Per quanto, ripeto, faccia male.

Diciamo allora che me ne infischio del linguaggio sciacallo. Opto per il linguaggio giraffa. In altri termini, vado oltre chi lancia fango a prescindere e preferisco affidarmi a chi accende una candela invece che urlare il buio. Prediligo chi costruisce relazioni autentiche, dense di umanità, in cui ciascuno dà e riceve, chiede aiuto e lo offre. Senz’altro piacere che aiutare, senz’altra umiltà che accettare di essere aiutati.

Insomma, non credo a chi denigra l’amore. A chi un giorno l’esalta e il giorno dopo l’affossa. Ché tutti sono buoni a dire che non esiste e poi tutti ne hanno bisogno come l’aria, specie quando si ritrovano da soli.

Amo anche questi versi scritti Francesco Gabbani insieme a Ornella Vanoni e Pacifico:

Io sono tutto l’amore che ho dato
Tutto l’amore incondizionato
L’imbarazzo dietro al vanto
Un sorriso dentro al pianto
Io sono tutto l’amore che ho dato
Mare in tempesta e cielo stellato
Poco prima di uno schianto
Un sorriso dentro al pianto.

E dunque io sto con Gibran. Non mi vergogno di dire che, se si resta ciechi, è l’amore la luce.

Tempo fa, mi è stato detto che nessuno è in grado di guardare al di là del proprio naso. Dissento. Non guarda al di là del proprio naso l’egoista. Guarda ben oltre il proprio naso chi ha scelto come ragione di vita la felicità altrui. Chi è convinto che amare ed essere amati sia l’unica ragione necessaria e sufficiente di vita.

Poesia? Ditelo ad una mamma che sceglie di morire pur di portare a termine una gravidanza. Ditelo ad un insegnante precario pagato come uno sfigato e che si consuma per i suoi alunni. Ditelo ai medici e infermieri che hanno contratto il Covid per curare gli ammalati. Ditelo a chi indossa una divisa, rinunciando a tante libertà personali pur garantire la libertà altrui. Ditelo a chi da giorni spala fango in Emilia Romagna. Ditelo ai milioni di volontari che servono gratuitamente nei mille modi in cui si può declinare il volontariato, vero pilastro del nostro vivere sociale. Ditelo a chi ama persino da morto, scegliendo da vivo di donare i propri organi.

Sono solo esempi. Potrei semplicemente scrivere: ditelo a chi si consuma per accendere l’aurora. E  ce ne sono, non ditemi che non ce ne sono. Per scorgerli, basta non incaponirsi con gli occhi chiusi. Basta vedere chi si è scelto di non vedere.

Poesia? No, vita. La stessa vita che può essere terribile, angosciante, crudele, ingiusta, dolorosa o anche luminosa e poetica. Appunto.

In realtà, ritengo cbe il più delle volte sia tutte queste cose insieme e che chi insieme le regge, guarda caso, sia ancora una volta l’amore.

L’amore che ascolta, l’amore che tace, l’amore che sa anche quello che non sa e comprende anche ciò che non comprende, l’amore che copre, l’amore che spera, l’amore che va oltre, l’amore che scalda, l’amore che soffre, l’amore che piange, l’amore che ride dentro al pianto, l’amore che regge il peso, l’amore che attende. L’amore che ama.

A chi mi dà dell’illuso, rispondo che ha ragione. A lui penserà Elias Canetti.

Io sto con Umberto Saba:

Amai trite parole che non uno

osava. M’incantò la rima fiore

amore

la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo.

Ancora Saba:

Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Il promesso Canetti: «Una noia mortale emana da quelli che hanno ragione e lo sanno».


FontePhotocredits: Paolo Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...