«E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».
(Agostino, Confessioni)
L’altro giorno, in una quinta liceale, spiegavo Verga e il suo nero pessimismo. Mi venne in mente di citare “Uno su mille ce la fa”, la nota canzone di Gianni Morandi, e chiosai: “Vedete, ragazzi, noi guardiamo a chi arriva primo, Verga si interessa ai novecentonovantanove sconfitti. Anzi: pensa a quell’unico vincitore destinato a diventare perdente a sua volta, prima o poi”.
Avevo ancora in mente questa riflessione quando, il giorno seguente, in una terza, leggevo “L’ascesa al Monte Ventoso” di Francesco Petrarca. È stato come se il grande poeta del ‘300 si fosse dato convegno con lo scrittore del secondo ‘800 e dovetti commentare: “Ragazzi, qual è la cosa più triste di quando scali una vetta e arrivi in cima?”. Silenzi imbarazzati, balbettii, tentativi di risposta più o meno azzeccati, infine la parola del prof: “Che puoi solo scendere…”.
Caro lettore, perché te ne scrivo? Perché mi pare un’allegoria del tempo in cui viviamo. Sai, ci hanno insegnato a correre sempre, a sgomitare per arrivare primi, a salire sempre più in alto. Be’, io penso che ci abbiano fregato. Perché troppo spesso si sono scordati di dirci che non si può vincere sempre, che anzi il più delle volte si è sconfitti e che, anche quando si vince, si vince sempre per un po’, finché dura, fino a quando qualcun altro non viene a scalzarci dal podio così faticosamente conquistato.
Anche le vittorie più grandi sono pur sempre parziali. Per non parlare delle sconfitte.
E allora? Allora non può essere questo il senso della vita, non può risiedere in questa folle rincorsa la nostra felicità. Ci vuole qualcosa di più solido, di meno passeggero, di più vero.
Continuiamo a pensarci. Magari mentre sorseggiamo il nostro caffè…