Stiamo vivendo un drammatica trasformazione del nostro vivere insieme: i nostri mass-media quotidianamente ci presentano scene di violenza, guerre, massacri, con tale minuziosa insistenza da farli sembrare “normali”, innescando quasi uno stato di assuefazione o d’indifferenza nei loro confronti. In tutto questo, però, l’elemento più orribile che si attiva è la cultura dello spettatore: tipica di chi assiste passivamente, osservando in maniera apatica e distaccata, le sorti degli altri.

Sembra proprio che la nostra epoca si presenti sotto il segno dell’indifferenza, nel linguaggio, nelle relazioni interpersonali, nelle varie esperienze: un mondo che appare ai più popolato di passanti distratti e noncuranti, affetti dalla disattenzione dell’uomo verso l’uomo, dotati di una moralità precaria e asservita all’interesse personale che lascia intravvedere un’apatia come malattia psicologica.

L’indifferenza sembra essere il peggiore dei nostri mali; è una china pericolosa e oscura che sta divorando la nostra società civile: la freddezza nei confronti del dolore altrui e della sofferenza fa paura, spaventa più della violenza. Il chiudere gli occhi di fronte all’altro, abbandonato all’assoluta solitudine delle sue vicende, anche quando soffre e chiede aiuto, è segno che al centro non c’è più il valore della vita, ma il proprio piccolo orizzonte. Gramsci scrive: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti“.

Se dovessimo cercare le cause dell’indifferenza, dovremmo addentrarci nel mondo della paura di sentire le proprie emozioni; dovremmo spingerci nella diffidenza nel vivere i rapporti umani per poi constatare la distrazione e l’incapacità di leggere la propria sensibilità. Ma in proposito il punto dolente sembra essere soprattutto la solitudine, che non è disperazione, ma una sorta di apatia che si muove viscida nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c’è anima viva in grado di raccoglierlo, e dove, se si dovesse gridare “aiuto”, ciò che ritorna sarebbe solo l’eco del proprio grido.

Per far fronte all’ampiezza della crisi che stiamo vivendo, il “rigore” è sicuramente necessario; ma da solo non basta a lasciar immaginare la possibilità di un domani diverso dal presente, in cui gli spazi siano il luogo della coabitazione. Questo è possibile con proposte educative forti in cui viene smantellato quel torpore in cui sono anestetizzate certe esistenze, cercando di destabilizzare quelle vite miranti semplicemente all’autoconservazione.

La religiosità, quale sorgente di energia per i momenti critici, esorcizzando la paura dell’insensibilità e proiettando un’immagine sana di umanità, ha una risposta educativa all’indifferenza: la parabola del buon samaritano.

“Un Samaritano che era in viaggio gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si accostò, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò” (cfr. Lc 10, 33ss). Questi tre tipici comportamenti mettono in evidenza il tipo di interazione tra il Samaritano e la vittima: l’attenzione (vide), la compassione, e infine l’opera di soccorso. La proposta che scaturisce dalla parabola rivela come l’agire personale faccia parte di una struttura mentale che si lascia compenetrare e interrogare da una situazione di crisi o di emergenza o di bisogno dell’altro, e da uno stato emozionale di compassione.

Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, scriveva: “Sono molte le atrocità nel mondo e moltissimi i pericoli; ma di una cosa sono certo: il male peggiore è l’indifferenza … È contro di essa che bisogna combattere con tutte le proprie forze. E per farlo un’arma esiste: l’educazione. Bisogna praticarla, diffonderla, condividerla, esercitarla sempre e dovunque. Non arrendersi mai”.