Tutti noi, da piccoli, abbiamo imparato a memoria l’elenco dei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia.

Ma, ad esaminarli bene questi “vizi”, fatto salvo il giudizio morale dei comportamenti, di cui non ci occupiamo, ci rendiamo conto che essi altro non sono che “esagerazioni” e “deformazioni” di alcuni dei sentimenti di cui si è già trattato.

Lasciando da parte lo sguardo astratto dello studioso, immergiamoci nella nostra vita reale e quotidiana, dove ogni giorno costatiamo in noi movimenti, tratti, momenti, o, talvolta, caratteristiche stabili che ci rivelano come si realizza la “deformazione” e la “degradazione” dei nostri sentimenti.

Partiamo innanzitutto dal fatto che il “sentire”, che riguarda il nostro mondo interiore (modalità intratensiva), costituisce solo una faccia della nostra presenza al mondo, l’altra è costituita dall’ “agire” (modalità extratensiva), dal modo cioè con cui ci relazioniamo con il mondo delle cose e con gli altri.

Questa modalità bipolare del nostro esistere ci riporta in un “qui ed ora” (hic et nunc), che poi altro non sono che le coordinate spazio-temporali del vivere quotidiano, dove noi esperiamo la vasta gamma dei sentimenti, operiamo, mettiamo in essere tutte le azioni che ci realizzano, occupando un “posto” nel mondo.

Nel linguaggio corrente, diciamo, infatti, di “venire al mondo”, quando nasciamo, e di “lasciare questo mondo” quando moriamo, in un mondo, peraltro, già abitato, già affollato, dove per vivere dobbiamo “farci spazio”, dobbiamo occupare “un posto.

Se tutti noi abbiamo come compito primario l’accrescimento del nostro essere, rispondendo di noi stessi innanzitutto a noi stessi, possiamo adempiere a questo compito solo occupando giustamente, meritatamente il “nostro posto” nel mondo.

Quando, però, prendiamo in considerazione un qualsiasi posto fisico, sia esso un posto di lavoro o un posto dove abitare o un posto privilegiato in una relazione di amore esclusivo, osserviamo come quel posto non sia mai “vacante”; dobbiamo invece prendere atto che qualcun altro “concorre” con noi ad occupare quel posto: ma soltanto uno potrà ricoprirlo!

E questo non dipende dalla scarsezza o abbondanza di disponibilità di posti, quanto dalla modalità con cuoi tendiamo ad occupare quel posto. Qui entrano in gioco i nostri sentimenti!.

Siamo infatti due i candidati ad aspirare allo stesso posto, ma non “in due”.

Nella prima situazione siamo in concorrenza, in competizione, in una situazione di scontro, vediamo nell’altro il nostro avversario e talvolta persino il nemico; nella seconda siamo in collaborazione, in una situazione di incontro e di prossimità, siamo impegnati e gareggiamo per raggiungere lo stesso scopo.

Come possiamo vivere queste situazioni di conflitto?

C’è infatti una bella differenza tra il “desiderio di arrivare” e l’ ”arrivismo”.

Nella prima situazione siamo in competizione con l’altro, “gareggiamo correttamente” per occupare meritatamente il “posto” a cui aspiriamo, nell’altra invece utilizziamo ogni mezzo, anche scorretto, pur di raggiungere l’obbiettivo.

Il sentimento che sottende questa seconda situazione è l’invidia. E l’invidia apre la porta alla gelosia e talvolta anche all’odio.

Quante volte ci capita di godere delle stesse condizioni di benessere del nostro vicino con il quale potremmo intrattenere relazioni di buon vicinato, ma appena ci rendiamo conto che il “campo dell’altro è più verde”, ecco nascere in noi l’invidia e tutto quello che ne consegue.

Talvolta, nel linguaggio comune, quando vogliamo giustificare alcune nostre azioni ad un altro, gli diciamo semplicemente: “mettiti al mio posto”!

Mettiti al mio posto” è una espressione che richiama e riguarda la comprensione reciproca, prepara e ricerca l’incontro umano, mette in sordina quanto di troppo drastico, aggressivo può esservi nella affermazione di sé, non negativizza l’altro, facendolo nostro nemico.

Questo è il perno attorno a cui ruotano molti problemi della nostra esistenza e sui quali conviene riflettere per una “vita buona” ed una “buona vita”.

(Leggi: la seconda parte; la terza parte)


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Ho esercitato per oltre 40 anni la professione di neurologo e noto che oggi sembra di gran moda discutere di situazioni o comportamenti che riguardano l’uomo, servendosi di parole e concetti estrapolati da letture di di psicologia o psichiatria. Si cerca di dare una veste scientifica alle nostre opinioni, azzardando talvolta anche diagnosi specifiche, perdendo di vista la comprensione dello “specifico umano”, che sempre eccede le nostre categorie e che, come specchio, riguarda anche noi, in prima persona. Nelle mie brevi riflessioni presenterò alcuni aspetti della vita quotidiana di ognuno di noi, spesse volte portati all’attenzione di medici o psicologi, rileggendoli semplicemente come “accadimenti umani”, non rientranti nel patologico, cercando di de- psicologizzare e de- medicalizzare situazioni che, invece, sono proprie della condizione umana.