Le riflessioni svolte sul “dinamismo della vita” ci pongono, tra le tante, almeno due domande, che pur esulando dal mio campo professionale, e per questo le ritengo “fuori tema”, ci riguardano in quanto “uomini”, rientrando nella più ampia visione antropologica di queste osservazioni.
Pertanto, chiedo scusa sin da ora per le imprecisioni e la sommarietà nella esposizione, ritengo tuttavia sia più importante tener presente la serietà delle domande che la esaustività delle risposte.
Il primo quesito può essere così enunciato:
L’Uomo è artefice del suo destino?
Viene posto il problema della libertà e della responsabilità personale.
Se la presenza al mondo di ognuno di noi si realizza nel corpo e attraverso il corpo, e questo, nella sua accezione strettamente biologica, ci è dato dai nostri genitori con le conseguenze relative ai tratti legati alla discendenza ed alla ereditarietà, come è possibile ipotizzare un destino personale che non sia legato al nostro patrimonio genetico? Il nostro destino, in altri termini, è già tutto scritto nei geni? È osservazione comune di noi tutti come nei figli vengano rilevati non solo i tratti somatici dei genitori ma anche i tratti di personalità.
Per rispondere osserviamo innanzitutto come l’uomo non è solamente corpo, inteso nel senso biologico del termine, ma in quanto persona non solo discende dall’ ”altro” (genitori), ma è originariamente in relazione (in tutte le accezioni si voglia intendere il termine relazione) con l’”altro” (figlio di…); in questo senso la dimensione antropologica si pone accanto al dato biologico, ci costituisce persone uniche ed irripetibili, trascende il biologico e rimane intangibile.
L’esperienza dell’incontro con l’ “altro” ci segna di più e più profondamente del patrimonio genetico ed è questa esperienza che caratterizza la nostra presenza al mondo nella libertà e nella responsabilità.
Nella libertà in quanto tutti gli incontri, specie quelli connotati dal segno dell’ amicizia e dell’amore, sono frutto della nostra scelta, della nostra libera decisione. La “libertà” si pone ed opera appunto nello spazio tra il progetto che abbiamo di noi e l’azione o la realizzazione.
Nella responsabilità dell’altro che, secondo alcuni studiosi, precede addirittura l’apertura al mondo e all’altro, ed è assolutamente gratuita, non prevedendo che essa sia contraccambiata, costituendo la traduzione in opere del sentimento dell’amore.
Esempio paradigmatico di questo assunto è rappresentato dall’amore materno che genera il figlio, lo sostiene nella vita, lo ama, se ne prende cura, ne ha responsabilità, senza nulla chiedere in cambio!
In questo senso la responsabilità e la libertà non si dimostrano come una tesi filosofica, un teorema, ma si mostrano nell’agire quotidiano, quando ognuno di noi si prende cura dell’altro; in tal modo la libertà e la responsabilità assumono semplicemente evidenza empirica, un dato di fatto. Esse costituiscono il fondamento di ogni “etica”, di ogni norma dell’agire umano.
L’obiezione che noi non abbiamo scelto di venire al mondo, né il quando, né il come, né il dove, né da chi, non ci esime dal compito della responsabilità di essere per l’altro, compito che assumiamo originariamente nell’incontro con l’altro.
In conclusione se il biologico fonda la vita dell’organismo umano, l’antropologico fonda l’ “esistenza umana” e con essa sia la responsabilità che la libertà personale che ad essa si accompagnano!
Il secondo quesito può essere così formulato:
nell’ambito della ricerca dell’”orizzonte di senso” della esistenza è possibile per l’uomo l’apertura al Trascendente?
Anche questo problema, nella visione antropologica che connota queste riflessioni, ha una sua dignità e merita una qualche risposta.
La domanda è seria e non può essere elusa, anche perché le risposte date dai tanti pensatori sono state di segno diametralmente opposto.
Ci chiediamo: siamo venuti al mondo senza che lo abbiamo richiesto, corriamo questa avventura senza senso perché il “caso” ha deciso per noi, in una inutilità sinistra e disperata che finirà nel “nulla” o vi è un’altra prospettiva?
E che significato ha avuto parlare di trascendenza dell’umano sul biologico, di apertura della presenza al mondo e all’altro, di libertà della persona e di responsabilità nei confronti dell’altro se tutto finisce al cessare del tempo vissuto da ognuno di noi?
Quando abbiamo parlato del dinamismo della vita abbiamo detto che essa è un continuo “progredire”, un andare avanti, avendo ognuno di noi il compito in ogni momento di viverla in pienezza. Che significato può avere il termine “pienezza”?
Ritengo opportuno, a questo punto, per l’incertezza, l’imprecisione e la povertà della mia personale riflessione, cedere la parola ad Emmanuel Levinas ed a Martin Buber, due filosofi del secolo scorso, che molto approfonditamente hanno scritto su questo tema, aprendo nuove ed originali prospettive sugli argomenti di cui trattiamo. D’altronde molte idee fin qui espresse sono riprese dai loro lavori.
Per Buber il vertice della relazione Io-Tu è costituita dall’apertura dell’Io al Tu Eterno, a Dio. La parola che intesse il dialogo Io-Tu è preghiera da parte dell’uomo e rivelazione da parte di Dio. Così come per Levinas l’altro non è solo l’altro uomo, ma anche l’Alterità Assoluta, cioè Dio.
La vera rivelazione dell’Altro, di Dio, secondo Levinas, avviene nel volto di ogni persona che incontriamo, per cui se è certo che attraverso il prossimo incontriamo Dio, è altrettanto vero che è attraverso Dio che incontriamo il prossimo.
In questa relazione di prossimità si annoda ogni impegno e responsabilità nei confronti dell’altro, che sia il vicino familiare o che sia lo straniero, l’orfano, la vedova etc, in essa si fonda ogni regola del vivere umano .
L’uomo pertanto non è solamente un essere-nel-mondo, una presenza-al-mondo, ma anche un essere-per-l’altro-l’Altro che si realizza attraverso “l’irruzione di Dio nell’essere o l’esplosione dell’essere verso Dio”.
Caro Nicola, continuo il discorso che abbiamo iniziato fin dal tuo primo articolo. Mi sembrano tutti molto interessanti.
Ora ti chiedi se l’uomo è artefice del suo destino e se è possibile per l’uomo l’apertura al Trascendente per dare senso alla esistenza.
Se ho capito bene tu rispondi positivamente ad entrambi i quesiti.
L’uomo è artefice del suo destino perché può scegliere, è libero di scegliere, e vive la sua vita rapportandosi agli altri uomini e, proprio perché stabilisce rapporti, si assume responsabilità nei confronti degli altri uomini. La libertà e la responsabilità sono alla base del nostro agire e fondano l’etica.
Poi, al secondo quesito rispondi ancora positivamente, perché (cerco di esprimermi in parole povere) il nostro rapportarci agli altri uomini è come il modello di un rapporto più profondo ed essenziale: “”…l’altro non è solo l’altro uomo, ma anche l’Alterità Assoluta, cioè Dio.”” Del resto, dici, rafforzando il tuo ragionamento “”… che significato ha avuto parlare di trascendenza dell’umano sul biologico, di apertura della presenza al mondo e all’altro, di libertà della persona e di responsabilità nei confronti dell’altro se tutto finisce al cessare del tempo vissuto da ognuno di noi?” ”
La tua riflessione è consolante e ottimistica, e io spero davvero che tu abbia ragione: ma -a prescindere dalla condivisione o meno del tuo punto di vista sulla Trascendenza – mi sento di condividere a pieno il principio della responsabilità che ognuno di noi ha verso gli altri uomini, per il solo fatto di esistere; che è poi la base di ogni etica umana, ciò che rende possibile la convivenza. Sarebbe opportuno però condurre anche una riflessione sul problema del MALE: quesito abbastanza inquietante. Un caro saluto
Pino Del Mastro