«Queste creature si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore, che il mio occhio letificato non riesce a scorgere dattorno nulla che sia morto»
(Hugo von Hofmannsthal)
È nato tre giorni fa, si chiama Alessandro, ha anche un cognome, è un uomo definito. Sì, un uomo, perché Dio mi scansi e liberi dal pensare mai che un neonato sia il satellite di un adulto.
Lui è lui, ripeto, si chiama Alessandro, ha un nome.
L’ho guardato ed osservato mentre dormiva nel suo lettino, le mie braccia hanno vinto contro ogni forza che voleva impedirmi di sfiorarlo: lo hanno raccolto ed accolto. E lì è finito tutto, perché come ogni volta in cui finisce qualcosa, c’è un inizio molto più grande.
La contemplazione.
Come fosse la prima volta in cui guardi qualcosa senza poter pensare a niente: puoi solo ammirare, come per la teofania di Giobbe quando Dio, al suo più pio figlio divenuto miscredente, diede un sonoro schiaffo in faccia, senza toccarlo. Gli mostrò, in tutto il suo splendore, il creato.
E la mente non può comprenderlo e contenerlo, può solo contemplare in silenzio, perché il contenuto della meraviglia ha dimensioni immensamente maggiori del contenitore che si affatica per comprenderla.
Nondimeno, quel contenitore diventa tanto più grande da non affannarsi più, finalmente fa silenzio e spazio, riconoscendo fisiologicamente la sua impotenza.
Scoperta la sua fragilità, allora, fa pace con sé stessa e ascolta.
La vita.