«Lo duca mio di sùbito mi prese, 
come la madre ch’al romore è desta 
e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s’arresta, 
avendo più di lui che di sé cura, 
tanto che solo una camiscia vesta»

(Inferno XXIII, vv.37-42)

Il duca mio mi prese subito in braccio, come una madre sveglia dal rumore di un incendio, che stringe al petto il figlio e fugge senza fermarsi, avendo cura di lui più che della sua stessa vita, tanto da scappare di casa vestita di una sola camicia: questo il senso delle due terzine che più mi hanno colpito nel canto ventitreesimo e ho pensato di proporle subito alla tua attenzione perché mi hanno fatto ritornare col pensiero al tempo che stiamo attraversando…

Il canto si suddivide in tre sezioni: la precipitosa fuga di Dante e Virgilio dai Malebranche che li inseguono furiosi, l’arrivo nella sesta bolgia dove sono puniti gli ipocriti, l’ira funesta di Virgilio allo svelamento dell’inganno di Malacoda.

Mentre fuggono, è Dante ad essere colto dal terrore che i Malebranche possano essere al loro inseguimento. Virgilio, che gli legge nel pensiero, non fa in tempo a rassicurarlo che già deve caricarselo addosso per scendere repentinamente nella sesta bolgia e sfuggire alla vendetta dei diavolacci. Giunti laddove sono puniti gli ipocriti, osservano la loro pena: marciare, come in processione, a passo lentissimo, oppressi da cappucci monacali dorati all’esterno, ma in realtà di piombo pesantissimo. Tra i puniti, Dante ascolta le parole di due Frati Gaudenti, Catalano e Loderingo, chiamati da Bologna a Firenze per mediare tra Guelfi e Ghibellini, salvo rivelarsi, per l’appunto, tutt’altro che cristallini, a danno della parte ghibellina.

Segue poi un passo assai controverso: mentre avanzano, i due poeti trovano un gruppo di crocefissi a terra e la cosa sconcerta Virgilio che è pur sempre allegoria la ragione! Si tratta del sommo sacerdote Caifa, del suocero Anna e dei sacerdoti del Sinedrio, rei di aver condannato a morte Gesù col presto di salvare il popolo ebraico. Oggi, queste parole ci appaiono di gusto antisemita, ma non dovrebbero sorprenderci più di tanto se ricordassimo che l’antisemitismo è nato in ambito clericale, prima che politico, e che i ghetti ebraici sorsero in primo luogo all’interno dello Stato pontificio grazie all’emanazione, nel 1555, della bolla “Cum nimis absurdum”, di papa Paolo IV…

La scena finale si richiama al gusto farsesco dei due canti precedenti: Virgilio, a proposito del crollo dei ponti che sovrastano la bolgia, apprende da Catalano di essere stato gabbato da Malacoda e il frate, non senza una malcelata punta di sarcasmo, gli spiega di aver appreso nella “dotta Bologna” che il diavolo è fucina di ogni vizio e padre di ogni menzogna. La reazione del padre dell’Eneide suscita il nostro sorriso divertito: s’allontana “a gran passi …turbato un poco d’ira nel sembiante” (vv. 145-146) tanto che il povero Dante è costretto a inseguirlo. Eppure, …è proprio questo Virgilio, così umano e limitato, a conquistarci il cuore per il suo amore materno nei confronti di Dante.

Ritorno alle terzine con cui si apre questa riflessione e mi chiedo: non dovrebbe essere proprio Virgilio a ispirare quanti hanno responsabilità di guida, di governo, di educazione? E ripeto: soprattutto nel tempo che stiamo attraversando. Un tempo di smarrimento, di angoscia, di ricerca di risposte che non arrivano che, troppo spesso, le nostre stesse guide non ci sanno dare perché beffate, a loro volta, dalla “sardana infernale”.

Nondimeno, quali tracce seguire, se non quelle di chi è madre e padre per natura e costituzione?

Seguono GoetHe, San Suu Kyi e Bukowski, in climax discendente…

Johann Wolfgang von Goethe: «Quale governo è il migliore? Quello che c’insegna a governarci da soli».

Aung San Suu Kyi: «I capi di governo sono fantastici. Spesso sembra che siano gli ultimi a sapere quello che la gente vuole».

Charles Bukowski: «Ero alla bancarotta, il governo era alla bancarotta, il mondo era alla bancarotta. Ma chi cazzo li aveva, i fottuti soldi?».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...