In questi giorni in cui si fa memoria della shoah, ripenso a lui, che di quell’immane tragedia è stato partecipe e testimone.

La collega che m’aveva dato il suo numero di telefono, mi aveva avvertito: «Vedrai, non è un tipo facile, avrai difficoltà a comunicare». Con le valigie già pronte, in procinto di partire, decisi ugualmente di comporre il suo numero e rischiai di perdere il treno. Rientrato in Italia, dopo solo due giorni fu lui stesso a chiamarmi: un fiume. Una settimana dopo ricevetti la sua prima lettera: era nata un’amicizia che doveva durare quasi sei anni, fino al 4 novembre 1992, giorno della sua morte, mentre ero a Parigi. Dopo d’allora, mi capita spesso di ringraziare la vita per avermi fatto incontrare Claude Aveline, uno scrittore versatile e longevo, con cui ho potuto conversare familiarmente nel piccolo appartamento al numero 12 della Rue Théophraste Renaudot o nella piccola casa bianca a L’Île-aux-Moines nel Morbihan, proprio quando avevo cominciato ad occuparmi di scrittori e intellettuali francesi attivi negli anni tra le due guerre.

In questi giorni in cui si fa memoria della shoah, ripenso a lui, che di quell’immane tragedia è stato partecipe e testimone. Nato a Versailles nel 1901 da genitori russi, ebrei assimilati, Evgen Avtsine – questo il suo nome, presto mutato in quello di Claude Aveline – aveva ignorato a lungo «la sua razza», ma già nel 1928, in una lettera indirizzata al direttore d’una rivista belga, aveva dichiarato di «ritenere una stupidità rinnegarla», precisando di «sentirsi ebreo solo nel momento in cui veniva a sapere che degli ebrei erano perseguitati », aggiungendo di sentirsi negro o cristiano quando negri o i cristiani subivano la stessa sorte.

Per questo, quando le vicende della storia – avvento del nazismo e occupazione del suo paese – lo chiamano in causa, prima si mobilita e poi, con tempestività, partecipa alla formazione del primo gruppo di resistenza, diffondendo informazioni tra i suoi connazionali in quella che è stata chiamata la «guerra delle parole». Le ragioni della sua precoce mobilitazione – gliel’ho fatto notare in una delle nostre conversazioni – erano le stesse che hanno animato l’impegno di Simone Weil : combattere con ogni mezzo il nazismo significava opporsi alla più clamorosa negazione dei valori essenziali dell’occidente.

Scampato a una retata della Gestapo che smantella il Gruppo del Musée de l’Homme (così chiamato per i numerosi ricercatori appartenenti a questa istituzione presenti nella formazione), raggiunge Lione e insieme a altri scrittori e intellettuali partecipa alla più vasta rete di resistenza nel Movimento di Combat. Di nuovo miracolosamente scampato ad un’incursione delle SS nella casa d’una amica farmacista dove è nascosto, entra in clandestinità, operando come agente di collegamento fino alla liberazione, e nel frattempo scrive Le temps mort, uno dei racconti più commoventi e significativi della letteratura resistenziale, uscito alla macchia nelle Éditions de Minuit, come il famoso Silence de la mer di Vercors.

Scritto sotto l’oppressione, Le Temps mort narra la vita sospesa d’una giovane resistente, Clémence, arrestata dai tedeschi, imprigionata e avviata verso un campo di concentramento. Chiusa in un fetido vagone, insieme all’amica Clotilde, stretta tra decine di uomini e di donne, senz’acqua né cibo, dopo due giorni e due notti, arriva a destinazione, stremata e delirante.  Mentre tra spintoni e urla s’apprestano a scendere, l’amica le mormora: «No, Clémence, no, non moriremo, vedrai, mia cara! Sono loro che moriranno, sono loro!». Poi il racconto, bruscamente, si chiude su una frase misteriosa: «All’alba del terzo giorno, siamo arrivati QUI».

Qui, ora lo sappiamo, è: Dachau, Majdanek, Mauthausen, Blechhammer, Ravensbrück, Westerbork, Piotkow, Hotmuth, Theresienstadt, Bergen-Belsen, Wansleben, Neuengamme, Fürstengrube, Jaworzno, Auschwitz, Czestochowa, Dora, Bouna, Wladiscka, TreblinKa, Birkennau, Buchenwald…

Oggi che non abbiamo ancora del tutto assolto il tremendo dovere di «immaginare il peggio», la tragica potenza evocatrice di quell’avverbio permane intatta: qui si allarga, si spalanca a dismisura, è voragine in cui non finiscono di rotolare i nuovi disastri e i nuovi eccidi di cui l’umanità è sempre gravida.

Nei campi, dove sono stati annientati milioni di ebrei e di resistenti, hanno trovato la morte anche molti amici di Claude Aveline. I sopravvissuti, rientrati a Parigi, smagriti, malati, perduti appaiono afasici, incapaci di trovare le parole per dire l’orrore da cui provengono. Lui stesso a lungo non riesce a dare voce all’orrenda tragedia, prova una sorta di rimorso d’essere ancora vivo, guarda la gente che cammina per le strade di Parigi, ritornata alla vita di sempre, e si sente, tra loro, come un estraneo. «Ero un sopravvissuto – confessa in un inedito che mi ha donato in uno dei nostri ultimi incontri –. Avrei dovuto dirmi: Tanto meglio! La mia felicità di scampato e d’uomo libero doveva troppo a coloro che l’avevano perduta. Avrei potuto dirmi: Tanto peggio. Uno spirito logico incapace d’adattamento avrebbe reso una sopravvivenza insopportabile, stretta tra la necessità del suicidio e della paura della morte. Mi sono accontentato di prender posto in questo stato, come fa il barbone d’inverno sulla griglia d’una fogna, il litro di vino al fianco, che sorride a tutti i piedi che gli sfilano davanti, indifferente ai visi che stanno sopra: siamo della loro strada, non siamo più del loro mondo».

Poi però, si torna a vivere, si scrivono romanzi, si dibatte, si polemizza col partito, si rilasciano interviste. In apparenza, perché il tumulto è sempre lì, al fondo della mente dove i volti degli annientati, degli spariti fanno ressa, chiedono attenzione. Tra i molti, con forza, con insistenza, ricompare il volto di Jacques Lion, un amico con cui, prima della guerra, ha lavorato fianco a fianco nell’Associazione Anatole France, lo scrittore di cui Aveline in gioventù era stato segretario e confidente.

Poi un giorno, siamo all’inizio degli anni settanta, il fantasma dell’amico, assassinato a Auschwitz, torna a visitarlo con insistenza, pretende ascolto, e Claude Aveline, sfuggito, lui, per miracolo, ai campi di concentramento, va in cerca delle parole giuste, e sono versi tremendi, veementi. Dedicato all’amico Jacques Lion, e con lui ai «cento morti», suoi amici, rappresentanti noti, familiari, d’una sconfinata moltitudine di ignoti, scomparsi nei campi di sterminio, volatilizzati nelle camere a gas, il Monologo per uno scomparso, poema stralunato e visionario, descrive la volontà pianificata di un’ordinaria follia, volta ad annientare totalmente un gruppo umano, pensa per noi l’impensabile, dice per noi l’indicibile.

Dopo un inizio burrascoso che lo vede camminare inquieto nel Jardin du Luxembourg, mescolando i piani del reale e dell’irreale, Claude Aveline, sconvolto si rivolge all’amico:

Dove sei Jacques Lion? Mi vergogno a chiedertelo

Io che non ho mai creduto al cielo delle ricompense

Perché non può darsi altra risposta

Che: «Nei nostri cuori». Nessuno dei miei cento morti

È nel mio cuore. Perché il mio cuore non è più in me.

Poi le nubi nere che scorazzano furiosamente nel cielo parigino all’approssimarsi di un temporale divengono il fumo greve che esce dai camini dei forni crematori:

Provo a immaginare la verità del peggio,

Quel milionesimo di secondo quando i tuoi occhi increduli

Hanno lasciato penetrare nei tuoi miliardi di cellule

L’evidenza che non sarà possibile mai cadere più in basso

Da nessuna parte, in nessun luogo,

In nessun secolo,

In nessun universo,

Per te e per qualunque creatura pensante, dotata di vita

Diventata,

Per effetto d’una esecrazione assoluta

Buona ad essere buttata in un’abominevole

Irreversibile degradazione.

I versi del suo lungo poema, grido, imprecazione, diretti contro l’inaudita violenza nazista risuonano in un cielo vuoto, senza Dio, senza remissione, dove degli sterminati, delle vittime, non è rimasta alcuna traccia, «niente». Nel cielo vuoto del poema si staglia solo il male assoluto, nazista allora, tuttora incombente, perché tragicamente, solamente nostro, umano. Questo cielo ateo, senza un Dio contro cui scagliarsi è di tutti e nessuno volga altrove lo sguardo, perché:

Questo è il mondo, figli miei.

Imparatela dal seno delle vostre madri

La promessa dei tempi nuovi:

L’universo concentrazionario.

Gli ultimi versi non consentono nessuna speranza:

Eppure non avrei voluto morire prima di finire

questo terrificante poema.

Ma la voce del Dio assente mi risponde,

Nel vento annuvolato

Nel freddo del giardino

Con lingua di silenzio:

– Anche immortale…

Nessuna improbabile immortalità riscatterà mai questo male assoluto. Eppure, mentre proclama il suo cuore morto, inospitale al ricordo degli innumeri scomparsi, Claude Aveline affida alla parola un compito disperato e modesto. La poesia non può nulla contro il male ma Jacques Lion e gli altri milioni di scomparsi – povera umana consolazione, unica nostra consolazione –, nei suoi versi, non sono più solo fumo svanito nell’aria. Illusione estrema, argine contro la disperazione.


1 COMMENTO

  1. Eppure non avrei voluto morire…
    No, non si può morire! Si continua a vivere. Ostinatamente. Al di sopra delle nuvole grigie..là dove il sole continua a splendere!

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