
Lettera da New York
Gli alberi splendono nello spiazzo geometrico del campus della Columbia University. Famiglie e amici lo riempiono come formiche, a migliaia. La luce primaverile riflette sulle finestre dei palazzi novecenteschi. La scalinata che si arrampica verso la porta di ingresso è nascosta da toghe azzurre. Più su, accanto alla statua dell’Alma Mater passano i rettori delle diciotto scuole che chiedono al Presidente Lee Bollinger di conferire le lauree ai rispettivi studenti. L’azzurro è un’onda che si muove, impaziente, e l’eccitazione vibra l’aria come ad un concerto – tutti pronti allo stacco per saltare. Bollinger con solennità dichiara tutti laureati. I cappelli volano per aria, abbracci, sorrisi, pianti, cuori che scoppiano, baci, fotografie, telefonate dalla nonna che non è potuta venire. Rintuona “Empire State of Mind” di Jay-Z e Alicia Keys, “New York, New York”, “If I can make it here, I can make it anywhere, that’s what they say”. Consacrazione dei sacrifici. Ce l’hanno fatta. È la fine di un capitolo.
Questa sarebbe stata la celebrazione, ma purtroppo per noi, classe 2020, la 266ma a laurearsi dalla Columbia University, il 20 Maggio 2020 non è stato così. La pandemia ha cancellato le celebrazioni consuete trasferendole on-line. Il sole era lo stesso, il cielo pure, ma la piazza era vuota e silente.
Ci siamo dati appuntamento in dieci, dopo due mesi di solitudine, per seguire la diretta assieme. Siamo entrati di soppiatto nella palazzina Pulitzer, abbiamo acceso un proiettore e abbiamo atteso che chiamassero i nostri nomi. Urla e applausi ogni volta che compariva uno dei nostri colleghi. Avremmo avuto bisogno di champagne per mandar giù il pessimo discorso di auguri. Finito il montaggio siamo usciti fuori a farci delle fotografie per ricordarci: laureati nel mezzo di una pandemia.
Ogni evento cruciale della nostra vita è scandito da una celebrazione: battesimo, laurea, matrimonio, morte. Ognuno di questi eventi decreta la fine o l’inizio di un capitolo. Le celebrazioni servono per condividere le emozioni, per rendere più facile il passaggio. Con la laurea finisce il tempo ovattato dell’apprendimento e si entra nella durezza del mondo del lavoro. Finisce un tempo gioioso, e ci si affaccia sull’incertezza. Ascoltare un discorso emozionale e celebrare con i propri amici e parenti il momento solenne chiude un percorso. La condivisione diventa terapia di gruppo. Mi piace pensare che è per questo che esistono le cerimonie, gli inni, i canti, i festeggiamenti. E forse ecco perché lasciarsi con una ragazza storica è così doloroso: non c’è nessuno rito di passaggio, e alla conclusione e ti ritrovi da solo ad affrontare l’incertezza di quello che verrà.
Il virus ci ha tolto la celebrazione, quindi abbiamo deciso di crearci un rito di passaggio da soli: una lunga passeggiata di sei chilometri attraverso New York, dal campus fino all’Empire State Building, che si sarebbe acceso di azzurro per noi.
Ci scoliamo una bottiglia di whiskey accompagnata da patatine e formaggio danese.
Benoit sta per tornare in Francia, mentre per Muriel il Cile è lontano, come lo sono le Faer Oer per Regin, il Brasile per Sofia e l’india per Amitoj. Camminiamo vicini, come quando tutto andava bene, come se la laurea fosse un vaccino alla malattia. Sentiamo la leggerezza di della fine e il peso della realtà che ci aspetta. Non sembra essere mai esistito un momento peggiore per entrare nel mondo del lavoro. Ma non ci possiamo fare niente, e camminiamo. Camminiamo assieme con le toghe azzurre che svolazzando nella luce del tramonto. I lampioni all’entrata di Central Park si accendono per l’oscurità che arriva, e i passanti ci applaudono e congratulano, fischiandoci con gioia. Portiamo addosso la medaglia della fatica, come alla fine della maratona di New York. Il nostro pubblico è itinerante, non ci conosce, ma ci regala un sorriso. Siamo come corridori, stanchi, ma felici di aver terminato l’impresa. C’è mancato un pelo quando è arrivato il tornado: il vento contrario della pandemia ci ha quasi buttatati per terra…
Non ero mai stato nel parco al crepuscolo. Ci raccontiamo storie, ridiamo, cantiamo. Il parco è vuoto, ci passa accanto la macchina della polizia. L’allegria stride con il silenzio assorbente del verde vuoto. Dietro i nostri sorrisi si cela incertezza. Non sappiamo cosa faremo da domani o dove finiremo. Saltiamo di ramo in ramo come una banda di Baroni Rampanti in scia del mondo utopico costruito in biblioteca. Quel mondo dei buoni e giusti, che dice che i giornalisti sono i guardiani della democrazia. Meglio non pensarci per ora. Meglio camminare.
Ci troviamo davanti i grattacieli di Midtown, alti alti, che ci guardano con le poche finestre accese di chi non è scappato dall’epicentro mondiale della pandemia. L’antenna dell’Empire svetta in blu per noi. Incertezza e dubbi si sono rimescolati in un vortice risucchiato dal buio del parco.
Camminando insieme per New York, leggeri per la compagnia dei nostri amici. Camminiamo e sentiamo per un attimo l’odore sfuggente della felicità.
Complimenti Agostino! Sono un vecchio GIORNALAIO, messo male in salute. Conosco i Tuoi genitori ed in passato abbiamo avuto , se non ricordo male, qualche rapido scambio di opinioni al telefono. Se mai Ti capitera’ l occasione Ti incontrero’ molto volentieri.
Dimenticavo: scrivi davvero in maniera “efficace”.
Franco di Chio / Andria/ 3476500889
Ci scoliamo una bottiglia di whiskey accompagnata da patatine e formaggio danese. Una festa di laurea inusuale per il coronamento di anni di studio e di impegno. Ma mi chiedo perchè celebrarla con una bottiglia alcolica che crea una euforia artificiale e non autentica, frutto di una intossicazione del sistema nervoso centrale che rimbambisce anche le persone più intelligenti. L’abitudine consolidata di festeggiare con l’alcol deve essere accantonata per una scelta di sobrietà che possa rivelare la nostra autenticità. Auguri!!!