
…smetti di fare la bella addormentata nel bosco delle ciminiere.
Cara Taranto,
Ti scrivo da un luogo che non conosci. Fra l’altro, mentre leggi non una mail ma una lettera come scritta in altri tempi, non ti ricordi certo di me. E come potresti trovarmi nella tua memoria? Da anni mi hai, purtroppo, gettato nel dimenticatoio …Meglio ancora forse non mi hai nemmeno voluto conoscere. Ma tu mi manchi. Se ti dicessi il mio nome lo troveresti sepolto sotto una coltre di polvere, come in quelle librerie di nicchia o in quelle grandi biblioteche dove libri su libri aspettano, con speranza, di essere riaperti e vissuti. Forse stai guardandoti in faccia in quello specchio, vicino alla Rotonda, quando ami scendere giù nella passeggiata, a contemplare l’azzurro del cielo e del mare e senti i brividi al primo accenno di maestrale. E in quello specchio fatto di natura, vedendo il tuo viso, stai chiedendoti ora se la marea del tempo non abbia confuso i tuoi neuroni. Eppure, sento da qui, dove mi trovo, il rumore sordo eppure in certi momenti tambureggiante del tuo cuore che, pur se arteriosclerotico in certi momenti degli orari di punta, vede il traffico di uomini, donne, bambini e anziani custodire quel battito che da secoli ti rende viva. Sei ancora viva e di questo sono contento.
Me lo hanno detto di scriverti da dove ora mi trovo. E sai come? Un giorno, qui giunse un uomo, uscito da un cartone animato stile Pollon. Mi venne incontro e mi disse che sognava una musica da anni nella sua testa. Una musica per te e mi disse di scriverla. Io che sono ancora bambino dentro, pur se ormai ho 15 anni, dissi che avevo avuto in regalo, a un Natale, una bellissima chitarra con cui strimpellavo e scrivevo frasi senza senso musicandole. Quest’uomo mi disse che amava quello strumento e mi disse: “Se una persona parla forte possiamo udirla anche da lontano. Se parla piano non possiamo nemmeno sentirla da vicino”. Mi dissi che questo tizio strano sembrava uno di quei parcheggiatori abusivi che, avvicinandoti, iniziano a raccontarti la propria vita, sparando citazioni ad effetto, specie se ti vedono con giacca e cravatta o con una valigetta in mano, pur di spillarti qualche centesimo. Ma rincarò la dose e disse che dovevo io scrivere musica. Diversa dalle altre, perché credeva che si apprenda “da altri con l’aiuto altrui… Se non si conosce, trovare è impossibile”. Se ne andò regalandomi una strana colomba e una sorta di strumento strano, raganella la chiamò. Ogni tanto la uso quando mi trovo con altri bambini in questo luogo così strano eppure bellissimo. Mi disse che si chiamava Archita e che appena aveva saputo di un bambino arrivato da Taranto era venuto a conoscermi. Affermò di essere stato dimenticato da tanto tempo ma che lui amava chi lo aveva dimenticato. Disse che ti amava ancora. Che cose strane l’amore, eh? Disse che ti aveva conosciuta quando eri ancora una adolescente impertinente, che faceva sentire il suo caratterino a tutta la Puglia, ad Atene e pure a Roma. Una lacrimuccia gli disegnò una via sul viso, rigandolo con quel bianco che solo una lacrima nasconde come scia. Da quel giorno non è più venuto. La sua colomba di legno che fra le varie cose mi regalò, vola da sola e non so come possa tenersi in volo senza aiuti particolari. Mah, misteri degli inventori. Ma io questa cosa di conoscere e trovare non l’ho mica capita! Vabbè, torno a dirti quello che avevo in mente.
Io, cara la mia città, ti ho vissuto. Ricordo quando mio padre mi portava in giro su via D’Aquino e quando, entrando in uno dei bar della zona, se ne veniva fuori con un cono da paura, con la panna poi. Papà era bravo, mi faceva assaporare quel buon gelato che aveva un sapore più dolce e gustoso, specie quando si sentiva la temperatura salire in tarda primavera. Mamma, che mi faceva sempre ridere, mi insegnò a nuotare, a scendere giù nelle tue acque. Andavamo sulla litoranea, verso Saturo e mi mettevo alla ricerca di pezzi archeologici. Fin dalle elementari la maestra di italiano ci aveva detto che le nostre strade sono piene di testimonianze, ricordi diceva, di un passato bello, greco. A me, cui il podologo mi aveva parlato di un piede greco, non poteva che interessarmi il sentirmi greco. Credo che ultimamente di questi resti di una storia andata ne siano stati trovati in una strada da cui si vede alzarsi la collina di Roccaforzata e le finestre di San Giorgio Jonico, brillanti al sole.
Io dentro di me sento ancora l’emozione di nonna che preparava a Santa Cecilia le pettole. Mi affacciavo sul balcone, di mattina presto, per sentire le nenie, le pastorali dolcissime prima di tuffarmi nello zucchero sopra quella pastella fritta. Era la mia musica, associata a volte a quella che amano tutti nel quartiere dove vivono ancora i miei genitori: musica napoletana, spesso triste e tragica, a volte piena di trasgressione. Un giorno però la musica che iniziai a sentire era un’altra, abbastanza strana. Ti chiamai quel giorno: «Taranto, dove sei? Aiutami!». Silenzio assoluto. Ero svenuto mentre tiravo un calcio al pallone, in quella piazzetta dove la puzza di bruciato si associa all’odore penetrante del banchetto di cozze della pescheria. Mi portarono in quella stanza di pronto soccorso dove io apparivo, mamma me lo disse, come beatamente addormentato. Mi svegliarono dopo vari tentativi. Quando rinvenni una flebo mi aveva disegnato un foro nel braccio. Mamma, lei, piangeva. Stava abbracciata a papà che le accarezzava i capelli. Compresi che ero io la causa di quel dolore lancinante. Volli alzarmi per andare a correre da mamma, a consolarla. Distrattamente, il cellulare cadde e si attivò la radio. Si sentiva la voce di un giornalista che diceva che le tue strade erano bloccate da manifestanti e che avevano posto sigilli a non so cosa. Papà corse subito a fermarmi nella mia impresa di scendere dal letto. Se mi fossi alzato si sarebbe accesa una campanella che avrebbe preoccupato le infermiere. Non era il caso di disturbarle. Mamma subito mi baciò sulla fronte. Mi sa, mi dissi, che il calcio mio al pallone doveva essere stato talmente forte da farmi cadere a terra e sbattere la testa. No, purtroppo non era così. Era una specie di mostro che divorava gli spazi del mio cervello e che stava demolendo una difesa dopo l’altra posta dagli organi del mio corpo. Venni portato a quell’ospedale sulla via per quel paese che noi tarantini abbiniamo al freddo e al gelo. Lì venni inserito in una tristissima stanza, solo resa giocosa la domenica dai clown che mi facevano ridere. Buffi e assurdi mi riempivano di palloncini e ricordo come volessi sempre la spada. Un clown, fra loro, si metteva ogni domenica a combattere con me e rimaneva un’oretta. Le risate non erano mai poche. Ma il resto della settimana sentivo musiche strane. Ambulanze in via vai, macchinari che suonavano continuamente, il rumore sordo dei passi dei medici. Due anni di questa roba e si impazzisce, credimi, Taranto mia! Finché uno le cose non le vive non le capisce. I miei amichetti un giorno vennero sotto casa a gridare di mettermi in forma. La squadra di calcio in cui avevo iniziato a correre e a mostrare le mie qualità da Cr7 aveva bisogno della sua mezzala. I miei dribbling erano musica per l’allenatore che aveva progettato per me un provino nel Taranto stesso. La musica che misero era quella forte, ganza, rappata come piace a me. Un giorno presi la chitarra e mi misi a suonare una musica in cui unì il testo: «Sei la mia città / la mia gioia / la soluzione contro la noia / Questa ciminiera un incubo avvera / ma il sole disegnerà colori sospesi/ Per i sogni belli ci vogliono mesi / Il cuore batte bellezza». Non ho mai finito il pezzo, ma sappi che te lo dedico. In quegli ultimi mesi, prima che mi portassero qui (al Nord mi dissero), la distanza da te era fisica pur se stavo accanto a te. Ho visto bambini come me piangere, bucherellati nelle braccia e nel resto del corpo. Ho visto mamme e papà che non dormivano la notte. Accanto a me c’erano persone adulte che ricevevano la visita del proprio figlio piccolino. Pur se senza forze, magri e consunti, lo prendevano in braccio e lo alzavano come fosse il trofeo più bello. E pensare che io ero cresciuto nell’idea che solo chi ha vinto la coppa alla Playstation potesse essere festeggiato e portato in trionfo. E invece erano bambini come me a essere sollevati in alto da mamme, papà e familiari, in specie se arrivava quella bellissima frase “ora è salvo!”. Dalla finestra non vedevo amichetti, ma vedevo solo montagne di polvere, fumo arancione, e di sera sembravano i fumogeni che si vedono allo stadio. Un giorno papà venne da me triste. Di solito portava sempre un sorriso a casa. Mi disse che dalle ultime analisi le cose non andavano bene. Mamma era intenta a pulire nel balcone un misto di terra e ferro. In tv si diceva che si stesse approvando una legge che permetteva di fare ancora fumi, di sentire ancora quel brutto rumore di ferraglia, quella puzza di gas che rendono le notti del mio quartiere bruttissime. So che ancora quella puzza la sentirete. È la vostra analisi per il Covid, credo. Se sentite la puzza non l’avete questa patologia di cui si parla anche quassù al Nord. Sai, qui al Nord si sono scocciati di vedere bambini. È giunto l’altro giorno un avviso che si rivolgeva a me: scrivi a quelli giù al Sud che basta, non ne vogliamo più bambini. È tutto pieno e si crea assembramento, non si tengono le distanze. Qua siamo ormai tantissimi. Anche lui, quel piccolino che a malapena aveva due anni, che abitava vicino casa, sta qui. Ora, se lo vedi è cresciuto. Lo hanno adottato tutti qui. Ha il sorriso sul viso e ogni tanto fa capolino nei sogni della madre abbracciandola e stringendola forte. Taranto mia, smetti di fare la bella addormentata nel bosco delle ciminiere. Smettila di essere indifferente. Quello specchio in cui ora ti stai ritrovando, leggendo le mie righe, non ti ha detto che sei la più bella del reame? Cara la mia città, qui senza te sono solo. Come soli sono ora mamma e papà che ogni tanto vengono a trovarmi. Peccato non possa abbracciarli. Il tuo silenzio e la tua indolenza mi ha ucciso la vita terrena. Ma non la speranza che tu possa non avere più addosso l’odore di benzina e catrame, di gas e di acido. Ma di mare e vento. Quando sarai così mi hanno promesso di mandarmi da te per correre spensierato fra i prati sorti lì dove sorgeva una industria…