
Il fervente amore di Apollo nei confronti di Castalia stava diventando così pressante che la ninfa, a un certo punto, si vide costretta a denunciare per stalking il Dio libertino e marpione. Pur non essendoci giunta alcuna conferma storica di quanto stiamo per raccontarvi, voci indiscrete narrano che a poco servì l’intervento di un giudice di pace. Per dirimere la questione, il Pubblico Ministero di allora, ormai in pensione, emanò un ordine restrittivo per colui che, diciamocela tutta, si credeva una specie di ellenico Rodolfo Valentino. La Divinità del Sole, abbagliato probabilmente dai suoi stessi raggi, non ci vide più, e accecato di gelosia, trasformò Castalia in una fonte alla cui acqua diede il dono di far diventare poeti coloro che da essa si fossero abbeverati. Castalia venne posta ai piedi del Parnaso, un monte situato al centro della Grecia, il luogo sacro dove poter praticare, ad esempio, il culto della ierogamia, ossia i matrimoni tra due divinità, in uno sfarzoso eccesso di riti sessuali e gastronomici da far invidia persino alle nozze celebrate nel Sud Italia.
Le scelleratezze consumate sul Parnaso avevano, simbolicamente, fatto cadere giù a valle tutta la vena artistica dei letterati francesi del XIX che, riunitisi in un movimento, denominato appunto “parnassianesimo”, cercarono, con insistenza, il modo per riportare in auge il valore semantico della poesia. Rivoluzionaria, in questo senso, fu l’opera di Baudelaire, “I fiori del male” (Les Fleurs du mal).
Precursore del decadentismo, Charles Baudelaire ha influenzato, attraverso il proprio singolare pensiero filosofico, molte personalità culturali che si auto-annoveravano, di diritto, nella corrente dei cosiddetti “poeti maledetti”. Parliamo di gente del calibro di Paul Valéry, Marcel Proust o Edmund Wilson. Persino tra gli scapigliati italiani, in particolare Emilio Praga, la dottrina di Baudelaire attecchì con successo, anche grazie allo stile bohémien e ribelle di una poetica improntata sull’emotività, sull’amore e su un’ars vivendi che, nel giro di pochi decenni, avrebbe creato il modernismo.
Il misticismo che caratterizzava “I fiori del male” ispirò tutto l’Ottocento e non solo, dando metaforicamente al pubblico il consenso di approcciarsi, più da vicino, a temi scabrosi quali esoterismo, teologia e metafisica. Diviso in cinque sezioni, il testo conteneva oltre cento poesie e, di queste, molte furono considerate oltraggio alla morale.
Secondo lo stesso Baudelaire, l’opera va interpretata come un viaggio immaginario nei reconditi e, quasi, infernali sogni proibiti dell’animo umano. Abbandonandosi ai piaceri edonistici della carne, Baudelaire traccia il confine tra il proprio malessere e la capacità di elevarsi al di sopra delle naturali e, per questo, banali necessità degli uomini comuni (correspondences).
Protagonista del primo capitolo, Spleen et ideal, è, infatti, un albatros che si innalza, con le sue ali, fino ai livelli massimi della sensibilità umana. Ciò che fa soffrire Baudelaire è lo spleen (“milza” in inglese), una sorta di bile causa di un’angoscia esistenziale, capace di proiettare l’autore in uno stato di perenne disappunto.
Il tentativo di fuggire da tale disagio è riscontrabile nella seconda parte della lirica, intitolata Tableaux parisiens. Baudelaire, pur mantenendo con il lettore un rapporto personale, si estranea dalla città, descrivendone l’evoluzione tramite l’utilizzo di una focalizzazione esterna che contaminerà anche il linguaggio di William Blake prima, ed Elliot, poi, nella sua “Terra desolata”.
I fiori del male fanno da cornice ad altre due sezioni: Le vin e Revolte. Nella prima, Baudelaire, realizzando quanto effimeri possano essere i piaceri contingenti, trova consolazione nell’alcool e nell’alterazione delle percezioni sensoriali. In Revolte, invece, il poeta appare disilluso dall’etica cristiana, si dimena aspramente nella negazione dell’esistenza di Dio, adorando il diavolo, il male e l’involontaria rassegnazione ad esso.
Non a caso, l’ultima unità è dedicata a La Mort, il disperato tentativo di Baudelaire di trovare sollievo nell’ignoto disfacimento delle cose.
Il pessimismo cronico professato da Charles Baudelaire sottendeva, in realtà, una estenuante rappresentazione dell’io esteta, si trattava dell’art pour l’art, nessuna dietrologia, nessun secondo fine, solo il godimento istantaneo, l’evanescente orgasmo di chi non intende fertilizzare il proprio futuro. La disamina delle circostanze non è altro che un’autopsia su uomini ancora in vita, si rastrella la terra sotto i propri piedi solo per prenderne coscienza non per asfaltarla o, magari, renderla più percorribile.
Baudelaire violenta il pudore, stupra l’opinione pubblica con l’arma della scioccante bellezza, intinge nell’acida imponderabilità tutti i progetti umani a medio lungo termine.
Qualcuno oggi potrebbe citarlo in giudizio ma, purtroppo per i suoi detrattori, quel Pubblico Ministero, di cui sopra. è, ormai, in pensione!