«L’avventura riposa sulla ricchezza dei legami che stabilisce, dei problemi che pone, delle creazioni che provoca»

 (Antoine de Saint-Exupery, Pilota di guerra)

Occorre fermarsi, occorre smettere di parlare e creare uno spazio di silenzio che offra tempo, condivisione di casa e cibo, ascolto.

Quando la dimensione dell’ascolto annaspa, tutto inizia a perdere senso: colui che ascolta non perde la capacità di reagire bene alle provocazioni del mondo. Al contrario, colui che non lo fa fugge anche da sé stesso quando, nel duro servire quotidiano, si fa incapace di prestare attenzione a ciò che accade, finendo per cogliere solo la superficie. In questo modo finisce per recriminare, ricattare affettivamente, manipolare e cercare di avere il controllo: annega nel troppo, si fa cieco nel troppo dire, troppo fare, troppo parlare. Crea un out-out fra il servizio e l’ascolto e perde di vista il punto focale: il modo del servizio. Alcuni di questi modi sono autoreferenziali, militanti, affannosi e non trovano più modo di lasciarsi plasmare dalla Parola.

È l’ascolto a creare la qualità del servo, a ricordargli che non è dominus e non può esserlo in nessun caso e in nessun luogo, a sottolineare che un servo è “colui che serve”, “colui che si rende utile” e non alle grandi masse e platee, perché questo in definitiva è un servizio teso ad ingigantire il suo ego.

ll servo è colui che si ferma e ascolta il più piccolo dei parlanti, quello totalmente slegato da qualsiasi cosa riguardi i suoi interessi e non può portargli nessun giovamento mondano, non può farlo uscire dal confronto come “il grande uomo agli occhi di tanti”, ma solo come “l’utile sostegno agli occhi di uno”.

Il servo che ascolta sa passare dai valori non negoziabili, all’umano condivisibile e per questo sa fermarsi, poiché è consapevole che potrebbe essere l’unico a sognare di poter costruire una cattedrale in mezzo ad un mare di macerie.

Devo gran parte di questa riflessione all’ascolto di qualcuno che non più tardi di ieri ha a lungo parlato a molte persone e facendolo, naturalmente per caso, ha incrociato e sostenuto spesso il mio sguardo. Sembrava parlare direttamente con me e sebbene forse così non fosse, stava dicendo ciò che avevo bisogno di sentirmi dire e che, per profondo senso di condivisione, ho scelto di dirvi.


Crediti fotoPhoto by Nick Fewings on Unsplash
Articolo precedenteCome amare gli altri e vivere da fratelli
Articolo successivoAndria. Tre borse di studio in memoria degli studenti dell’Itis Jannuzzi
Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.