«Abituarsi alla tristezza è la cosa più brutta che un essere umano possa fare»

(Agnese, in Un mondo a parte)

La settimana scorsa ho fatto un bagno nel lago del Fucino, un lago che non c’è più. Il lago, però, è presente ovunque nei racconti dei residenti e non c’è stato posto visitato o persona incontrata, tutte gentilissime, generose e accoglienti, che non ci abbia raccontato dell’opera faraonica messa in atto prima dall’imperatore Claudio e poi, nella seconda metà dell’Ottocento, dal magnate Torlonia per prosciugare quello che, per estensione, era il terzo lago d’Italia.

La coincidenza è stata che, poco dopo essere rientrato da una vacanza flash, ho visto l’ultima pellicola di Riccardo Milani che ha per protagonisti un Antonio Albanese sempre fedele a se stesso e una sontuosa Virginia Raffaele.

È quest’ultima che, nei panni di Agnese, vicepreside infaticabile di una scuola di montagna in via d’estinzione, pronuncia la frase che apre in esergo questo Caffè: «Abituarsi alla tristezza è la cosa più brutta che un essere umano possa fare».

Mi ha folgorato. E ho pensato in quanti modi la si potesse declinare.

Un primo modo è riflettere sul messaggio del film che, agli inguaribili romantici innamorati della scuola senza se e senza ma, consiglio vivamente di vedere. Vi troveranno la conferma dei miracoli che docenti come Agnese e come il maestro elementare Michele Cortese (Albanese) compiono un giorno sì e l’altro pure.

Un secondo modo è riflettere sul senso di identità e attaccamento alle radici che contraddistingue tante comunità montane: proprio come il film narra degli abitanti di Rupe, che nella realtà è Opi, un paesino sperduto del Parco Nazionale d’Abruzzo, che sorge a 1250 metri di altitudine e conta 372 abitanti…

Bene, io che ho visitato Avezzano, Celano, Tagliacozzo, Pescina dei Marsi, Alba Fucens, Aielli, ho trovato ovunque la stessa fierezza, il medesimo senso di appartenenza. La coscienza di far parte di una terra ricca di storia, nutrita da sacrifici. Una dignità che il Torlonia di passaggio o il terremoto di turno – non c’è racconto che non evochi il tremendo terremoto della Marsica nel 1915 – non hanno potuto spezzare né comprimere.

Fatevi due passi ad Aielli. Ammirate con rispetto la genialità di un’amministrazione visionaria – per favore, non chiedetemi di che “colore” sia… – che prende un pugno di case abbandonate e le fa diventare il museo al cielo aperto più bello d’Italia, visitato in continuazione da una miriade di turisti che era sogno immaginare, abitato da artisti che qui si sentono a casa, messo in moto ogni giorno di più da una cooperativa di giovani che hanno scommesso di poter vivere e lavorare nel loro paesino di montagna invece che fuggire altrove. E che si commuovono mentre illustrano murales di bellezza infinita e con messaggi potenti: contro la mafia, contro il razzismo, contro il genocidio palestinese e a favore della Costituzione, riprodotta integralmente, così come integralmente sono riprodotti Fontamara, Il Manifesto di Ventotene, la Divina Commedia.

No, non è proprio lecito essere tristi quando puoi cambiare il mondo: il tuo per esempio.

A Pescina, ho ritrovato Silone, che sento come fratello maggiore e che tanta parte ha avuto nella mia formazione. Proprio come lui, spesso mi sono sentito “cristiano senza chiesa e socialista” senza partito. La sua amara consapevolezza, più di una volta, mi ha contagiato.

Eppure, vorrei dirgli che a Tagliacozzo ho prima ascoltato il concerto di una banda locale che ha una storia antichissima, ma è composta da giovanissimi del posto. E poi ho incontrato le giovani monache di clausura che mi hanno fatto ridere di gusto come non mi capitava da tempo.

Perciò, a quello che mi pare di poter definire il suo “vangelo al contrario”, risponderò con l’ultima pagina di un romanzo che ho letto di recente. Ne è autrice Colleen Hoove, si intitola La casa dei cadaveri, ma, contrariamente all’atmosfera cupa evocata dal titolo, ha un finale luminoso.

Il “vangelo al contrario” di Silone: «In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito».

Colleen Hoover: «Le storie migliori vengono dagli imperfetti e dagli sconfitti. Chi ha dovuto resistere a prove e tormenti. Chi ha affrontato il mondo e ne è uscito stravolto. Solo loro possono raccontare storie che vale la pena ascoltare, perché hanno avuto più di un inizio, più di una fase intermedia a cui sono sopravvissuti, e più di una fine… E malgrado tutto, la loro storia continua».

Dedicato a mia madre.


FontePhotocredits: Paolo Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. D’accordissimo. Io però mi definirei come una cristiana nella Chiesa di Cristo e una socialista senza partito.
    Smettiamola di avversare la Chiesa: amiamola come una mamma ama un figlio/una figlia difficile, perché io sono la Chiesa e il mio Capo è Gesù Cristo.

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