
“Io mi libro” di Alessandro Pagani racchiude 500 aforismi che raccontano, sarcasticamente, il quotidiano da cui ciascuno di noi è costretto a districarsi. Lo abbiamo intervistato
Quando mi è stato chiesto di recensire “Io mi libro”, il nuovo lavoro di Alessandro Pagani ho commesso l’errore di cui i miei 25 lettori mi rimproverano più spesso: ho giudicato un testo dalla sua copertina. Cosa avrebbero potuto regalarmi 500 aforismi? A rispondermi sono stati i lettori di Pagani (molti più di 25), una copiosa schiera di ammiratori che da quelle pagine hanno tratto insegnamento per attecchire alla vita con un peso specifico più scanzonato ma non per questo meno analitico. L’incontro con Alessandro ha fatto il resto:
Ciao Alessandro. “Io mi libro” racchiude 500 aforismi che raccontano, sarcasticamente, il quotidiano da cui ciascuno di noi è costretto a districarsi. La forma verbale riflessiva del titolo può rappresentare una personificazione della realtà intesa come “leggero” coinvolgimento soggettivo nelle faccende della vita?
Credo sia normale affermare che tutto ciò che ci circonda nel nostro consueto ha un effetto riflessivo, che induce per effetto ad elaborare pensieri. Le difficoltà iniziano quando ciò che vediamo e proviamo durante le nostre quotidianità si scontra con i nostri principi, e con il nostro modo di essere. Senza peccare di snobismo, e lungi da me giudicare acriticamente, penso che stiamo vivendo un momento d’ombra generale che forse ci ha un pò allontanato dalle ambizioni più alte, la prima delle quali dovrebbe essere il raggiungimento della felicità attraverso ogni forma di comunicazione, tramite le attitudini personali. Parlo di arte e cultura in senso esteso, di relazioni interpersonali, di valori comuni che dovrebbero unire gli individui invece di allontanarli. In questo contesto, e davanti a muri talvolta insormontabili che la nostra società in qualche modo si è creata nel tempo, non riesco a dividere il soggettivo dall’oggettivo, visto che uno dipende dall’altro. Librarsi con il pensiero e far volare la fantasia, nel caso del mio libro in forma bizzarra, è una forma d’espressione che mi ha spinto ad osservare le cose da un altro punto di vista, non per fuggire dalle stesse, ma per comprenderle meglio al fine di elaborare soluzioni diverse. Come ho cercato di fare attraverso “Io mi libro”, che si affida all’umorismo per interpretare le esagerazioni dei nostri affanni, e raccontare un pezzo di verità delle nostre esperienze.
Le situazioni descritte all’interno della silloge richiamano i fitti dialoghi di Vladimiro ed Estragone, protagonisti del “Waiting for Godot”. Seppur in prosa, quanta poesia può rivelarsi dietro le quinte del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e, di conseguenza, dentro la semantica della tua opera?
C’è un passo nel racconto finale del mio libro in cui il protagonista (che poi sarei io), pur disponendo di due ali per volare e di tutto lo spazio del mondo per farlo, ad un certo punto ha nostalgia dei 60 mq. corrispondenti alla sua abitazione. Lo scenario rappresentato in “Aspettando Godot” è emblematico in questo senso, perchè i due protagonisti, sebbene abbiano tutto lo spazio ed il tempo a loro disposizione, non soltanto tornano ad attendere chi non verrà mai (presumendo la consapevolezza di ciò), ma raffigurano quello che l’uomo, almeno secondo Beckett, cerca senza successo di compiere, ovvero di muoversi (anche in senso intellettivo, che è una conseguenza dell’azione e viceversa), e quindi di evolvere dentro il futuro, compiendo passi e sviluppando pensieri che lo portino al di fuori della normalità. Rispetto alla concezione di teatro dell’assurdo, trovo il nonsense un linguaggio perfetto per un certo tipo di scrittura che può sembrare illogica ma che non lo è, che mette in comunicazione umorismo e tragicità, silenzio e fragore, ironia ed austerità, per osmosi definizioni legate al concetto di poesia quando viene a mancare una ragione nell’essere o nell’apparire: quello che il teatro dell’assurdo intende forse raffigurare, cioè trovare vita e respiro dove apparentemente manca. In ogni caso la maggioranza delle frasi contenute nel mio libro si allontanano dal prospetto citato, in quanto di evidente senso compiuto, seppure talvolta non immediato.
In che misura ti ha influenzato lo spiccato umorismo di autori quali Marcello Marchesi, Achille Campanile e Giovannino Guareschi?
Moltissimo, reputo ancora le loro battute ‘perle’ che conservo con cura dentro il mio personale scrigno umoristico. Ritengo gli autori comici italiani del passato geni sottovalutati, credo non se ne parli quanto si dovrebbe, visto che sono stati capaci di far nascere una nuova comicità con le loro visioni, contrassegnando un’epoca di sottili acutezze mai banali, mitigando fatti politici, di cronaca e di cultura quando una parola ambivalente e pretenziosa non rischiava la censura, ma la fine delle loro carriere. Oltre a ciò, l’eleganza e lo stile con cui alcuni di loro sono riusciti ad andare oltre la parodia, non si è rivista nel tempo, se non raramente. La dote di far sorridere è semplicemente complicata, è una necessità non indulgente, è uno slancio verso un paradigma ignoto. Tuttavia non basta fare ridere, bisogna saperlo fare bene, cercando di lasciare nell’immaginario collettivo suggestioni, chimere non effimere e pungenti antinomie. Perchè, come disse Marcello Marchesi: ” Non ho niente da dire, ma lo devo dire”.
Quella che proponi al lettore è una sorta di ginnastica per la mente, un grottesco rebus che non sempre porta ad una soluzione. Affrontare in chiave satirica le difficoltà che incontriamo può farci concludere che, spesso, gli enigmi più intricati sono quelli che ci autosomministriamo?
Forse la comicità serve proprio a questo, riconoscersi nelle proprie debolezze per esorcizzarle. Capire il confine tra le nostre potenzialità e l’inettitudine, cercare di andare oltre la mediocrità e la sufficienza, è il traguardo che l’uomo costantemente tenta di raggiungere, anche attraverso la satira, l’umorismo e l’ironia. D’altra parte una cosa è certa: senza la sofferenza, non potrebbe esistere chi ne celebra i risvolti.
Oltre che scrittore, sei anche batterista del gruppo rock Stolen Apple. Quanta forza comunicativa nasconde la musica?
Se non avesse forza comunicativa la musica perderebbe uno dei suoi principali fondamenti. Ho accennato alla parola arte in precedenza, che sicuramente contiene la musica come uno dei suoi maggiori linguaggi di diffusione. La potenza evocativa della musica è come la letteratura, patrimonio di tutti e veicolo di partecipazione collettiva.
Progetti futuri?
500 nuove frasi in cantiere, una breve narrazione dedicata alla storia di un portalettere, un libro di poesie scritte durante la mia adolescenza, ed il nuovo disco con gli Stolen Apple.