Un biopic troppo convenzionale

”Whitney – Una voce diventata leggenda” percorre una strada coraggiosa all’interno della vita del prodigio musicale Whitney Houston, ma commette passi falsi nel tentativo, vano, di sfuggire alle dinamiche di un biopic troppo convenzionale.

La sensazione è che la regista afroamericana, Kasi Lemmons, segua con sguardo di ammirazione la carriera di una donna soprannominata, con Sinatra, ”The Voice”, una donna sprofondata nella potenza delle sue innumerevoli hits, una donna influenzata dalla madre Cissy e dalla zia Dionne Warwick, soggiogata in un matrimonio infelice con Bobby Brown, una donna ammazzata da droghe e alcol, eppure in grado di battere il record di ”cantante più premiata della storia”.

La scelta dell’attrice inglese Naomi Ackie, nota per il ruolo di Janna in ”Star Was – L’ascesa di Skywalker”, è di forte impatto soprattutto per l’empatia che riesce ad instaurare con il pubblico, un mix di voce reale e playback che ci regala una prova recitativa davvero notevole. Affidare, poi, la sceneggiatura ad Anthony McCarten, lo stesso di ”Bohemian Rapsody”, è un autogol nella misura in cui l’epilogo della pellicola conduce, inevitabilmente, alla conseguenza strappalacrime di gesta musicali un tantino mitizzate in relazione alle debolezze umane dell’artista.

McCarten perde, ingiustificatamente, l’occasione di approfondire il rapporto fra la Houston e il suo produttore Clive Davis, poco presente nel film, interpretato con perfetta delicatezza da Stanley Tucci, contestualizzazione prodromica al disagio che le donne di colore provavano all’interno di una società macchiata da mariti picchiatori e fedifraghi.

Come i calabroni del proverbio, i biopic, pur non sapendolo, provano ugualmente a volare, e noi ci lasciamo piacevolmente incantare dalle loro ali!