“Questi – disse Nausicaa riguardo a Ulisse – è un misero naufrago …

e dobbiamo curarcene:

vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.

Date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,

e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento”.

(Libro VI, Odissea)

Il tema dell’ospitalità ha avuto nella cultura greca e non solo una grande importanza. E oggi che valore ha l’ospitalità? Vale ancora oggi il senso di accoglienza degli stranieri? Siamo una società anabolica o catabolica?

Nelle righe tratte dall’Odissea e proposte sopra, è possibile scorgere le coordinate e le azioni che caratterizzano l’accoglienza e l’ospitalità.

Gli stranieri qui sono visti come dono piccolo e caro, da nutrire, lavare e riparare (quindi aver cura).

Esisteva nella cultura greca una duplice prospettiva dell’ospitalità: da una parte un’ospitalità condizionata che domandava nome e cognome, si faceva patto e sfociava in un diritto dell’ospitalità; dall’altra, un’ospitalità assoluta che manteneva l’anonimato e non aveva bisogno di un nome prima di aprire la porta.

La xenia (ospitalità in greco antico) era un’azione “sacra” per i Greci e consisteva nel rispetto reciproco tra ospitante e ospite, e nel cercar di soddisfare al meglio il proprio ospite (cibarlo, lavarlo e dargli vestiti puliti) e, nel momento del “commiato” si dava un regalo all’ospite.

Ma cosa muoveva gli antichi greci a simile trattamento? Perché l’ospitalità era da essi tenuta in un tale gran conto? Tra le risposte più verosimili troviamo la diffusa convinzione che, sotto le spoglie degli stranieri, si potesse celare un dio pronto a saggiare i comportamenti degli uomini.

Questo perché i Greci credevano che in un qualsiasi ospite, sia che fosse ricco e sia che fosse un mendicante, si potesse “nascondere” un dio travestito appunto da uomo e che avrebbe “testato” l’ospitalità del padrone di casa.

La violazione delle leggi dell’ospitalità avrebbe potuto, infatti, scatenare una terribile vendetta divina. Per questo motivo, alcuni tra gli stessi proci rimproverano il comportamento inospitale di Antinoo: “Male colpisti un ramingo infelice, pazzo; e se fosse per caso un nume del cielo?”.

Anche nella cultura cristiana il senso di accoglienza e ospitalità è forte e importante; si pensi, per esempio, all’ospitalità assoluta e incondizionata di Abramo.

“Quando salutate un ospite – scriveva nella sua Regola San Benedetto – mostrate grande deferenza. Quando arrivano e quando partono, chinate il capo davanti a loro, onorando Cristo che è in loro. Accogliendo l’ospite, accogli Cristo”.

Fanno pena coloro che si riempiono la bocca dell’impegno di difendere il crocifisso e poi scaricano insulti sugli stranieri indesiderabili che bussano alle loro porte. Infatti, era stato proprio quello stesso uomo crocifisso a dire senza tante subordinate: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». E, a scanso di equivoci, l’elenco era chiaro: stranieri, nudi, malati, carcerati (Mt 25, 31-46).

La Bibbia, in altro luogo, usa parole ancora più lapidarie per invitare gli uomini ad essere ospitali: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2).

E torniamo alla domanda iniziale: oggi tutto questo vale ancora? Siamo una società anabolica, cioè aperta e accogliente o catabolica, cioè che stringe, chiude?

Oggi qualcuno dice che siamo una società catabolica, che si chiude a riccio e pensa solo al proprio orticello. E questa è conseguenza di un deficit culturale in movimento, un’ignoranza che sta permeando tutta la società odierna e non è capace di discernere il vero dal falso.

La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo per eccellenza, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis), è divenuto ospite (hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo.

Ci affidiamo a un’assonanza che di per sé vorrebbe dire affinità e che, invece, a livello di significato, rivela un’antitesi. Da un lato c’è l’hostis, il nemico per eccellenza, con una connotazione più generale e quasi “nazionale” rispetto al puro e semplice inimicus personale.

D’altro lato, ecco l’hospes, un vocabolo dal suono simile, ma dal valore ben diverso: è l’«ospite» che viene accolto con premura, come fece Abramo in quel caldo pomeriggio orientale nei confronti dei tre personaggi che si erano presentati davanti alla sua tenda sotto le querce di Mamre.

Come possiamo dunque fare nostri gli insegnamenti ospitali di Abramo? È possibile sperimentare un’ospitalità che rinuncia all’identità scritta nel permesso di soggiorno e non domanda il nome a chi giunge, che si assume il rischio e la responsabilità di accogliere senza condizioni? In quale rapporto stanno, insomma, le leggi di ospitalità e l’etica dell’ospitalità?

La vera civiltà nasce non tanto con le grandi scoperte, ma con un atto di umanità, di ospitalità.

Certo, questa scelta è complessa e anche faticosa, dev’essere calibrata ed è frutto di un impegno reciproco tra i due interlocutori, ma è l’unica «via stretta» verso la civiltà e la grandezza di un popolo.

Uno dei passi decisivi che l’umanità deve fare ora, prima che sia troppo tardi, è iniziare una “conversione culturale”, cioè riconsiderare la cultura non come un qualcosa che non dà pane, ma qualcosa che ti permette di conoscere e riconoscere il sapore del pane.

Non si può, infatti, parlare senza prima conoscere. Allora che fare? Queste possono essere le coordinate fondamentali dell’etica dell’ospitalità: vedere gli stranieri da lontano, per capire le cause che li portano a fuggire; vedere se stessi negli stranieri, in un lavoro di immedesimazione; vedere gli stranieri da vicino come concittadini; vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione e l’amicizia.

Scrive Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”.

Noi stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria, per ciascuno di noi, è di incontrarli faccia a faccia, personalmente, di ascoltare direttamente le loro storie, di vederli nell’occhio contro occhio.


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Nicola Montereale è nato a Trani (BA) il 1 Febbraio 1994 ed è residente ad Andria. Nel 2013 ha conseguito la maturità classica presso Liceo Classico “Carlo Troia” di Andria e nel 2018 il Baccalaureato in Sacra Teologia presso l’Istituto Teologico “Regina Apuliae” di Molfetta. Attualmente è cultore della materia teologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) e docente IRC presso il Liceo Scientifico e Classico “A.F. Formiggini” di Sassuolo (Mo). Ha scritto diversi articoli e contributi, tra questi la sua pubblicazione: Divinità nella storia, Dio nella vita. Attraversiamo insieme il deserto…là dove la parola muore, Vertigo Edizioni, Roma 2014. Inoltre, è autore di un saggio di ricerca, pubblicato nel 2013 e intitolato “Divinità nella Storia, Dio nella Vita”.