Identità e tradizioni delle discipline storico-giuridiche
Recensire un libro di storia delle identità e delle tradizioni scientifico-accademiche sugli studi di storia del diritto, oggi, rappresenta l’occasione per capire come gli apparati della scienza giuridico-storiografica fornisce gli strumenti che contribuiscono a formare un’eventuale parte della classe dirigente del domani.
“Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive”, a cura di Italo Birocchi e Massimo Brutti, edito nel 2016, è uno strumento in mezzo a tanti altri strumenti per ricostruire una storia – in mezzo a tante storie – sul metodo di trasmissione del sapere in accademia: con la consapevolezza che ciò che in accademia inizia a formarsi, poi, può produrre azione sociale fuori da quei circuiti, o in parallelo ad essi.
L’opera collettanea “Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive” raccoglie le relazioni che vari studiosi di storia del diritto e della romanistica hanno esposto nel convegno annuale della Società Italiana di Storia del Diritto, tenutosi nel 2015 in due sessioni, presso l’Università Roma Tre e l’Università Cattolica di Milano.
Dopo la significativa dedica alla memoria di Aldo Mazzacane, il volume presenta al lettore le ragioni del convegno con l’introduzione di Claudia Storti, che mette a fuoco le problematiche principali sviluppate nelle riflessioni successive. Tra queste, si ricordi la questione delle necessità educative insite nei corsi universitari di Storia del diritto romano e Storia del diritto medievale e moderno, da un lato, nonché il connesso tema delle varie esperienze metodologiche maturate nella ricerca e nella didattica, dall’altro lato. Nel volume, così, si riflette sul “come” formare il giurista del domani e su “quale” tipologia di giurista si potrebbe promuovere, attraverso le riforme dell’ordinamento del corso di studi in Giurisprudenza.
Ciascun intervento tenta di apportare un contributo realistico alle domande di autocoscienza scientifica e didattica, con la consapevolezza di non poter mai dare una risposta totalmente risolutiva alle stesse. È ragionevole, d’altronde, organizzare gli studi storico-giuridici tenendo conto tanto delle istanze di libertà nella ricerca quanto delle necessarie pianificazioni d’insieme.
Vengono affrontati nonché lasciati debitamente aperti i temi del peso qualitativo, e quantitativo, da attribuire agli insegnamenti della storia giuridica, romanistica, medievale e moderna, nel sistema universitario contemporaneo. Gli Autori poi entrano anche nel merito delle materie, attraverso degli esempi indicativi, per garantire al lettore la comprensione di quanto sia inevitabile una salda coscienza sulle radici storiche delle istituzioni giuridiche. Tale coscienza viene infatti descritta come propedeutica alla gestione critica delle sfide dei giuristi del domani, a partire dalla quotidiana attività di interpretazione e riorganizzazione delle complessità giuridiche contemporanee.
Le brevi analisi sui rinvigorimenti e sulle crisi del sapere storico del diritto, nell’opera, distinguono diverse fasi storiche. La prima fase compendia l’attività della dottrina storica del diritto tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale, con le ancora resistenti influenze dei grandi maestri della pandettistica tedesca, già di per sé inseritesi “in ritardo” nel contesto italiano. La seconda fase va dalla Prima Guerra mondiale alla caduta del fascismo, la terza fase dai lavori della Costituente agli inizi degli anni ‘70 del Novecento, e l’ultima fase dal 1970 fino al nuovo millennio. L’ultima fase, invero, è la più problematica e rischiosa per la tenuta della qualità e del peso delle discipline storiche del diritto nel panorama culturale generale, da un lato, e nel sistema di formazione universitaria, dall’altro lato.
Le tendenze tradizionali che si fronteggiano nelle impostazioni culturali degli storici del diritto, nei fatti, sono quelle delle scuole storicistiche e quelle delle correnti formalistiche nelle loro divergenti sfumature. Tra queste ultime correnti si distinguono, ulteriormente, le posizioni strettamente esegetiche da quelle di dogmatica sistematica e concettuale. In alcuni dei saggi presenti nel volume, come in quello di Emanuele Stolfi ma anche in altri, vengono richiamate la scuola savignyana e le sue ramificazioni pandettistiche successive come un riferimento importante con cui ancora oggi è necessario confrontarsi in modo critico, malgrado dal 1° gennaio 1900 sia entrato in vigore il BGB, che ha posto fine alla vigenza di un usus modernus Pandectarum tipico della esperienza tedesca ottocentesca.
Il volume ripercorre le identità disciplinari della storiografia giuridica e romanistica, tra luoghi comuni e dogmi da relativizzare, ed anzi da “storicizzare”, secondo la lezione di Orestano, che spesso viene indicativamente ricordato tra le pagine del testo.
La cognizione storica della romanistica e del diritto nel suo complesso, così, rappresenterebbe un apparato scientifico irrinunciabile per l’acquisizione di metodi idonei in un mondo che muta freneticamente i propri parametri valutativi. Quei metodi servono ad armonizzare le esperienze giuridiche non solo in modo descrittivo e diacronico ma soprattutto in modo critico. Gianni Santucci, nel suo saggio presente nel volume in recensione, ricorda il rammarico di Pietro de Francisci nel vedere i giuristi delle discipline di diritto vigente porsi in una posizione di lontananza rispetto a diverse questioni cruciali per l’intera cultura giuridica, che invece venivano affrontate dai cosiddetti giuristi teoretici.
Santucci ricorda pure le considerazioni di Aldo Schiavone, nel delineare da lontano le coordinate dottrinali del periodo in cui la romanistica aveva addirittura la forza di aspirare a rivestire un ruolo egemonico in seno alla intera cultura italiana. Negli anni ‘10 del Novecento, infatti, il ruolo della cultura romanistica in Italia era così grande che gli studiosi di tali discipline, posti al centro di vari dibattiti, difendevano il prodotto delle proprie ricerche dalle serrate critiche sollevate dalle correnti di matrice idealistica, come quelle di Gentile e di Croce. Questi ultimi, invece, tendevano a fondare il concetto di nazione italiana non tanto sulla continuità con la tradizione storico-romanistica, quanto su di una storiografia filosofica neoidealista.
Nel volume, tra le varie scuole di pensiero, viene pure menzionata la corrente che concepisce la storia del diritto romano come una parte della storia del diritto moderno italiano, la cui conoscenza sarebbe stata necessaria per l’intelligenza e la trasformazione del diritto positivo.
Toccando i nodi cruciali delle discussioni sviluppatesi nelle comunità accademiche, gli Autori del volume hanno ripercorso in modo sintetico e rievocativo le posizioni di Emilio Betti e di Vincenzo Arangio-Ruiz, tra polemiche appartenenti al passato e punti ancora irrisolti circa il modo di intendere la storia della romanistica come scienza funzionale. Dalla coscienza del declino del sistema pandettistico al ridimensionamento dell’interpolazionismo, dalla crisi delle categorie dogmatiche quasi soltanto privatistiche dello Stato borghese alla conseguente crisi della radice viva del diritto romano nella concezione della contemporaneità giuridica, il volume ripercorre i prodotti scientifici pionieristici della nuova storicità del diritto. Nell’operazione di storicizzazione, tra l’altro, si erano sviluppati peculiari studi che andavano oltre l’angolo visuale della storia dell’Europa continentale, e di ciò l’opera in recensione dà contezza in rapide menzioni, come nel caso dei confronti con le esperienze giuridiche orientali da parte del giurista novecentesco Edoardo Volterra.
Il saggio di Antonello Calore sintetizza gli orientamenti presenti negli insegnamenti di Giovanni Pugliese, Giuseppe Grosso, Riccardo Orestano e Francesco De Martino. Pugliese, pur studiando a fondo la romanistica da un punto di vista istituzionale, ha rintracciato nella valorizzazione della storia del diritto romano il mezzo per non atrofizzare il sistema entro i recinti della sola dogmatica. Lavorando sulle categorie di ordinamenti distinti, Grosso era convinto che fosse la storia ad arricchire la teoria generale. Orestano, poi, non fermava le proprie indagini accademiche all’insieme dei dati normativi presenti nell’ordinamento giuridico, ed anzi relativizzava lo stesso concetto storico di ordinamento. Lo studio di De Martino, invece, arricchì le riflessioni scientifiche con un metro di analisi della storia di tipo dialettico, materialista e marxiano, con una interpretazione dell’esperienza umana nella sua totalità.
Dalle riflessioni di Giovanni Pugliese, riportate nel volume, è rilevabile una impostazione secondo cui il diritto viene pensato come una “unità” di elementi che sopravvivono a tutte le trasformazioni, e ancora di fattori costanti, di regole immutabili, a cui obbedisca inconsapevolmente l’inventiva umana. In tale visione, pertanto, le contingenze storiche non riuscirebbero a mutare tali costanti, costituite da un minimo comun denominatore di princìpi particolari e generali interconnessi tra loro. Secondo l’Autore ora in considerazione, però, non vi sarebbe un ordine sociale che sia giusto in ogni tempo ed in ogni luogo, dato che le specifiche norme possono cambiare, a seconda delle combinazioni storicamente verificatesi tra princìpi e realtà sociale.
Complessivamente, per chi si accinge a voler fare il punto della situazione sulla esperienza scientifica e didattica della storia della romanistica, il volume in commento costituisce un punto fermo da cui partono ulteriori ed inarrestabili percorsi di riflessione e autocritica. Attraverso le loro chiare analisi sulle tematiche calde dello studio storico-giuridico, gli Autori di “Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive” hanno contribuito a sintetizzare alcuni importanti percorsi vissuti dalla dottrina negli ultimi due secoli. Essi, inoltre, nel loro insieme hanno pure fornito un ammirevole contributo per spianare la strada dei problemi scientifici ancora da affrontare, in un’èra contemporanea in cui una parte dei conformismi vuole degradare lo studio del diritto organizzando i percorsi universitari entro una cornice didattica quasi priva di memoria e, quindi, con uno spessore critico non all’altezza delle sfide del domani.