Un insegnante colpisce per l’eternità; non si può mai dire dove la sua influenza si ferma.
(Henry Brooks Adams)
Un giorno un docente universitario chiese deliberatamente ai suoi studenti di festeggiare qualcosa. Quello era un gruppo di studenti svegli. Lui li aveva dapprima trattati come di solito trattava chi non conosceva: un tocco di superbia, mista ad oggettiva cultura, che creava un distacco palpabile, a tratti acido. Dopo il primo anno e la prima carrellata di risultati, però, dovette ricredersi. Iniziò ad amare, senza farne mistero, la loro altissima soglia di attenzione, che abbracciava perfettamente la caratteristica quasi opposta: erano gaudenti. Alla prima occasione per unirsi in una risata, anziché dietro un testo, partivano senza bisogno di spinte.
Figuriamoci se si trattava di trasformare una cattedra in una tavola imbandita ed un intervallo in un momento di gioia!
Erano quelli che colonizzavano l’Istituto, occupavano l’intera scalinata di accesso per farsi i maxi selfoni di inizio anno accademico, che poi venivano pubblicati online con titoli che indicativamente suonavano come: ‘squadra vincente non si cambia!’
Ed erano diversissimi fra loro: per età, sensibilità, culture pregresse. Tutti con l’obiettivo di procedere e di farlo con dignità. Una miscela esplosiva con una caratteristica particolare, che nessuno sembrava aver loro insegnato, posto che erano stati così sin dal primo giorno del primo anno: loro erano esattamente la squadra che decantavano sui social.
Nessuno mai si sarebbe sognato di remare contro qualcun altro, tutt’altro. Quando serviva una mano, la persona in difficoltà non doveva cercarla infondo al suo braccio: ne aveva decine a disposizione. Questo li ha resi vincenti: chi più velocemente, chi meno, procedevano. E quando qualcuno restava indietro, senza che chiedesse nulla, giù di appunti, riassunti, proposte di studio in comune, motivazione!
Vox populi ormai li etichettava come: quelli del terzo anno. Fu alla fine del triennio, evidentemente, che tutto diventò evidente. Avrebbero potuto continuare per i successivi dieci anni, sarebbero rimasti quelli del terzo anno, senza possibilità di essere confusi con l’effettivo terzo anno in corso.
Addirittura l’ultimo anno, quando il regolamento di Istituto era stato modificato e loro, proprio loro, erano il capro espiatorio, toccava a loro il turno del nuovo corpo docente, degli esami aumentati, della modifica e dell’irrigidimento delle regole, avevano creato un gruppo di studio, spontaneamente, perché avevano capito che diversamente non avrebbero potuto farcela. Avevano lavorato in sintonia, ognuno aveva fatto camminare un ingranaggio del macchinario, si erano accordati con la precisione di un orologio svizzero, si erano dati delle scadenze. Insieme erano arrivati ad avere tutto il materiale pronto e perfettamente ragionato: in tempo.
Quindi quel docente da questo genere di platea voleva il festeggiamento, ma era vegetariano ed aveva espressamente chiesto di poter avere solo pietanze fatte in casa.
Vi ho già detto che erano diversi per età, molti avevano altro da fare o, semplicemente, non avevano mamme pronte a preparare, ma figli da accudire. Nessuno però si era tirato indietro, nemmeno la più timida fra loro. Era adulta, aveva famiglia, era remissiva, chiusa, ad ogni esame lo spettro della bocciatura. Eppure studiava. Ma era vittima del panico. Un panico che però non le impediva di procedere. Aveva tempi più lunghi degli altri, ma li seguiva. Non rinunciava. Perdeva e ritentava. Alla fine ce la faceva. Ed io ho sempre pensato che sia molto facile vincere facile, mentre una persona così deve avere addirittura più forza di chi invece, anche in preda al panico, riesce a vincere e ad uscirne al primo tentativo. Stima infinita.
Proprio lei, con figli a carico e timore reverenziale da vendere, si era accollata l’onere di preparare la torta preferita dal docente: la sacher. Non aveva trovato il tempo, già insegnava, i figli, le lezioni, la programmazione.
Così, andò in una delle pasticcerie più rinomate del centro storico, chiarendo la problematica della dieta vegetariana, spendendo una cifra blu, ed arrivando con una gigante e bellissima sacher.
Il docente?
Guardò quasi inorridito quella torta, non disse nemmeno grazie.
La scansò, in mezzo a tutto il resto che era stato preparato e disse solo:
– È di pasticceria. Non è di mio gradimento.
Il volto di quella studente si fece paonazzo di vergogna, come sempre le accadeva, gli occhi si riempirono di lacrime che non uscirono e si sentì colpevole per aver osato sfidare la suscettibilità del suo professore. Proprio lui poi: materie difficili, esigente, esigentissimo. Si scusò pubblicamente, ma in silenzio:
– Che figuraccia, continuava a ripetere.
Per poi chiudere con un:
– Vabbè, io però lo sapevo. Ci ho solo provato. Dai, non fa niente.
Di quella “festa”, la squadra che ricordava il motivo di ogni singola altra festa, ha rimosso tutto. Quell’evento è passato alla storia come: “la sacher di Flora”.
E no, non era un bel titolo.
Credetemi se vi dico che non era un bel titolo, perché io ero parte integrante di quella squadra, c’ero, dal primo giorno. Sono in tutti quei selphie, ero nella felicità dell’ultimo giorno dell’ultimo anno, che però ci fece piangere appena scoccate le ore 19.00. L’ultima lezione, lì, l’ultima, per sempre. Comunque fossero andate le sessioni, avevamo finito le lezioni, il sacrificio, le domande, gli sguardi di intesa, i brividi davanti a talune citazioni, le prese in giro, le risate. Quante risate! Piangevamo.
Ecco che allora, ad ogni insegnante, ogni professore, ogni maestro, vorrei poter dire quanto segue: io ero in quel gruppo, ora sono dall’altra parte ed i miei gruppi li guardo (non da dietro la cattedra, quando i contenuti della lezione me lo consentono, perché non so stare molto bene seduta lì. Sì, quando e appena posso, mi siedo davanti e sopra la cattedra, accavallo le gambe, sistemo le mani accanto alle anche e li guardo, prima di aprire bocca. È una postura ereditata da qualcuno che ne sa molto più di me).
Sapevo e so che uno studente di qualunque età può dimenticare un contenuto, un regola, una formula, ma non dimenticherà mai il modo in cui lo abbiamo fatto sentire.
Quindi, se prima lo avrei detto con convinzione, oggi lo faccio con fermezza: maestro, professore, ogni volta che guardi negli occhi uno studente, ti devi assumere la responsabilità di quello sguardo. Pertanto, affinati!