
Benedetto XVI, il (secondo) papa del “gran rifiuto”
Ho tra le mani il libro-intervista di Benedetto XVI Ultime conversazioni, curato dal giornalista tedesco Peter Seewald. Seduto su una panchina di un piccolo parco non lontano dall’edicola dove l’ho acquistato insieme al quotidiano, ne ho letto subito le prime pagine. Sulla panchina accanto, una badante ha sistemato un signore molto anziano non autosufficiente. Anche Benedetto XVI è un uomo molto anziano, ha gli acciacchi della vecchiaia, da un occhio non vede più da qualche tempo ormai, l’udito è molto diminuito, ma è lucido, capace di rispondere con mitezza e precisione a domande benevole ma puntuali di un giornalista nel pieno della sua maturità. Guardo l’anziano signore seduto accanto e penso che lui e il papa emerito hanno in comune alcune cose essenziali. Non so se l’anziano signore ha avuto posizioni di prestigio nella vita, è evidente che ora dipende in tutto e per tutto da chi si prende cura di lui, conducendolo dove magari non vuole andare e rivestendolo con abiti che si fanno sempre più flosci. Entrambi – questo li accomuna – sono fragili e in apprensione di fronte all’approssimarsi della morte… L’anziano signore, per smorzare la paura forse pensa che la morte gli consentirà di raggiungere i propri cari. Anche Joseph Ratzinger, forte delle sue riflessioni teologiche sulle cose ultime di cui ha scritto, all’intervistatore che gli chiede cosa si aspetta oltre morte, confida: «[Accanto al livello teologico] contemporaneamente c’è un livello, del tutto umano, per cui sono contento di rivedere i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici insieme e di immaginare che sarà bello come un tempo a casa nostra».
Durante i mesi estivi del suo pontificato Benedetto XVI amava invitare nella residenza di Castel Gandolfo i suoi ex alunni degli anni di insegnamento come professore di dogmatica e intrattenersi con loro; ora ama ricevere nel monastero Mater Ecclesiæ, dove si è ritirato, gli amici e conversare con loro. Anche il vecchio della panchina probabilmente aspetta con gioia la visita di un figlio o di qualche amico.
Ho avuto con la figura di questo papa un rapporto contrastato, non privo di riserve, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della Chiesa e nei primi anni del suo pontificato, poi lentamente, impercettibilmente il rapporto s’è fatto quasi affettuoso. Il cambiamento è divenuto evidente soprattutto nel momento della sua rinuncia. Tra gli appunti di quei giorni, conservo una riflessione, annotata il 23 febbraio 2013:
«Le motivazioni addotte per giustificare o cercare di capire il gesto di Benedetto XVI sono corrette, ma lo sono solo parzialmente. Penso che rinunciando Ratzinger abbia avuto un’intuizione, forse non immediatamente chiara: nel suo gesto c’è una volontà oggettiva di avviare un processo di demondanizzazione e di umanizzazione della Chiesa e dello stesso potere papale. Sta forse iniziando un’era nuova per la Chiesa: viene seriamente scalfita l’idea di una Chiesa monarchia e gerarchica, e si profila l’immagine di una Chiesa umile, fondata sul servizio e sulla condivisione. Se Ratzinger fosse rimasto un semplice teologo avrebbe portato avanti una riflessione teologica in questa direzione. Divenuto vescovo, cardinale, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha avuto qualche difficoltà nel proseguire questa trasformazione. Il peso della responsabilità lo ha costretto a salvaguardare una concezione tradizionale della Chiesa. Ci vorrebbe uno scrittore visionario per rendere tutto il dramma che c’è nel suo animo. Il suo gesto non può essere interpretato solo alla luce del diritto canonico, domanda di essere indagato dal punto di vista teologico. Forse neppure il suo successore avrà il coraggio di andare fino in fondo nella comprensione teologica di questo gesto. Minimizzarlo, come fanno alcuni, o limitarsi a sottolineare i disagi liturgici e gerarchici che esso comporta, è forse quello che si cercherà di fare. Questa palla di neve lanciata nell’inverno della Chiesa non mancherà di mettere in moto un effetto valanga… ».
Sottoscrivo ancora il contenuto di quella riflessione, ma oggi la formulerei in modo più semplice, liberandola dal gergo teologico, affermerei con più forza che è proprio la mitezza e la fragilità di quest’uomo che ha consentito l’avvio di un mutamento di cui ancora non misuriamo l’entità.
Lo spirito, attraverso cui si manifesta Dio, o chi peri lui, è come un alito leggero, è come il soffio che esce a fatica dalla bocca di un vecchio che cammina lentamente, appoggiato ad un bastone, si ferma a guardare con commozione un gatto, ascolta volentieri la musica, prega quando può e come può, riceve grato le persone che lo vanno a trovare, in attesa di «rivedere i genitori, i fratelli, gli amici… ».
Penso all’anziano signore del parco, penso al mite, fragile uomo vestito di bianco, dal sorriso timido, che presto compirà novanta anni, penso a me stesso che non sono molto lontano da loro negli anni, e mi dico che siamo tutti sotto uno stesso cielo. Con questi sentimenti leggo ora le sue Ultime conversazioni.