
Quel che Eva ci tolse…
La festa del Natale appena trascorsa e quella dell’Epifania, che oggi si celebra, mi offrono l’occasione di approfondire la conoscenza di un dipinto che mi ha sempre affascinato. Si tratta dell’allegoria dell’Immacolata Concezione realizzata da Giorgio Vasari negli anni 1540-41 per la chiesa dei Santi Apostoli in Firenze. La pala può essere letta in due modi diversi, a seconda che si parta dal basso o dall’alto. Proviamo a seguire la direzione dello sguardo dell’uomo e della donna nudi in primo piano. Essi sono i progenitori Adamo ed Eva, i quali si sono ribellati a Dio peccando di superbia. Il loro essere accasciati a terra esprime la situazione drammatica del loro peccato che ha causato la perdita della santità originale e il rifiuto dell’amicizia con Dio. Nel nome della libertà, l’uomo rompe il sentimento di filiale appartenenza al Creatore. La libertà, infatti, senza amore diventa hybris e cinico esercizio del proprio io. Cosa divento quando voglio affermare a tutti i costi me stesso? Veramente quella della superbia è l’unica strada umana per l’affermazione di se stessi?
La distanza delle creature dal Creatore è però superata dal gioco di sguardi: Maria, che regna nel bianco candore della luce divina, quale donna creata senza macchia in vista del suo divino concepimento, rivolge il suo sguardo sulla terra, verso i progenitori avvolti dall’oscurità di un paesaggio in netto contrasto con il chiarore del cielo. All’uomo decaduto che giace nelle tenebre del peccato non rimane che alzare lo sguardo verso la Madre celeste e sperare nella luce del perdono divino. La rottura dell’alleanza Dio-uomo si ricompone grazie al fiat di Maria; la ferita causata dalla disobbedienza di Eva è risanata dall’obbedienza di Maria, nuova Eva. È questo il senso della frase scritta sui due cartigli posti a sinistra e a destra della Vergine: quel che Eva ci tolse (la comunione con Dio) ci è ridonato in Maria e in suo Figlio.
Tra la Vergine e i progenitori vi è un tronco di legno rappresentante l’albero della conoscenza del bene e del male di cui parla il libro della Genesi. È l’albero del peccato («Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete!» si legge in Gn 3,3) a cui sono strette con ceppi mortali le mani di Adamo ed Eva. Avvinghiato attorno all’albero vi è poi il corpo di un serpente con una testa angelica (ha infatti le ali). È quell’angelo che per primo osò ribellarsi al suo Creatore e che, con la sua astuzia demoniaca, sedusse i progenitori separandoli da Dio e dal giardino in cui li aveva posti, simbolo di quella prima felicità edenica. Maria ora schiaccia la testa del serpente luciferino a rimarcare la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte, della grazia sul peccato.
Un altro particolare, però non deve sfuggire: da un lato e l’altro dell’albero posto nel mezzo del dipinto, così come «nel mezzo» era posto nell’Eden (cfr. Gn 3, 3) partono due rami che, mentre sostengono le mani di Adamo ed Eva, abbozzano con il grande tronco centrale una croce. È la prefigurazione della croce del Calvario, l’alto legno benedetto su cui saranno inchiodate le mani di Cristo. «Obbediente fino alla morte e alla morte di croce», il figlio di Dio, nuovo Adamo, trasformerà l’albero del peccato in albero di vita, distruggendo per sempre la colpa di Adamo. Ecco la speranza che vuole significare il dipinto e, quindi, la funzione di Maria quale donna scelta per dare alla luce il Redentore.
Quello che Vasari ha qui rappresentato si ritrova nella letteratura cristiana di tutti i tempi. Ad esempio, si legge nell’Inno Ave Maris Stella: «Sumens illud ave / Gabrielis ore / funda noi in pace / mutans Evae nomen», ovvero: «Ricevendo quell’Ave dalla bocca di Gabriele, donaci la pace mutando la sorte (nomen) di Eva». Era infatti consuetudine leggere l’AVE che l’angelo indirizza a Maria al momento dell’annunciazione, come rovesciamento di EVA. E ancora: «Solve vincla rei / profer lumen caecis», «scogli i vincoli dei peccatori, ridona la luce ai cechi», preghiera che diventa quasi rappresentazione plastica nel dipinto, dove i vincoli da sciogliere sono metaforicamente quelli che legano le mani dei progenitori all’albero del peccato, e la luce è quella che circonda la Vergine, raffigurata come la donna dell’Apocalisse vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi.
Vorrei concludere queste brevi note con le parole di un teologo dei nostri tempi, che riesce a far sentire ancora vivo oggi il mistero della Vergine e, quindi, del Natale: «È vero che Maria apparteneva a Dio, il quale la scelse e la santificò per sé. Tuttavia, lei è anche nostra. (…) L’umanità ha finalmente trovato un passaggio per giungere a Dio. Se non avesse creato una simile donna, Dio, abbassandosi, non avrebbe trovato un essere in cui riposare. Quando questa donna concepì il Figlio di Dio, fu l’umanità intera a portarlo in grembo. Se la vergine fu santificata da Dio perché venisse in lei il bambino celeste, quando lui lo partorì fu tutta l’umanità a essere santificata. Se la Vergine lo ospitò per nove mesi, l’umanità in lui si sentirà a casa per sempre. Egli è infatti nostro figlio, secondo la profezia: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5). Dio non può riprenderselo, se non prendendo anche noi in lui» (Matta El Meskin).