“Ultimo tango a Parigi” è un film che ha scritto la storia del cinema non solo italiano. Non se ne potrebbe vivere senza, culturalmente parlando. La cultura talvolta ha bisogno di scandalizzare perché lasci di sé un segno tangibile e ne è un esempio la narrativa di Pasolini.
Tuttavia la contraddizione resta, la certezza che non tutti possono capire. La morale cattolica e perbenista ha inquisito senza pietà su tante opere sottraendole al proprio naturale ciclo artistico. Fortunatamente ciò che è vietato suscita più attrazione di ciò che è permesso e il successo senza tempo del film lo testimonia. Quindi, l’Italia censuratrice degli anni ‘70 subiva la giusta punizione da parte del pubblico e dei curiosi.
Il film di Bertolucci non è cinematograficamente un “capolavoro”, non ha una trama solida e articolata che conduce ad un finale, è bensì un insieme di “scene” che vivono di vita propria e soprattutto pensate, realizzate durante la lavorazione, le classiche “genialate”. È un film che non muove gli attori ma ne è mosso, è un film con una sola vera anima quella di Brando che ne è il protagonista principale. Un film dalla drammaticità teatrale, perché in teatro non si ha la dispersione scenica tipica dei film, chi guarda non può distrarsi deve assolutamente concentrarsi sulla voce, sul volto, sulla recitazione; solo sostanza.
Brando era disperato, sembrava recitare se stesso, era una furia, travolgeva tutti e tutto, persino una inesperta e giovanissima Maria Schneider che forse, comicamente o tragicamente, non aveva il tempo di recitare ma solo di posare nuda; di abbandonare, lasciare, il suo corpo a Brando che ne faceva narrativamente e scenicamente ciò che gli piaceva. Maria Schneider però era bellissima, di quella bellezza che possedevano le donne che si potevano incontrare in ogni angolo di strada, aveva forme morbide, generose, sensuali. Un viso pulito, appena ventenne.
Il film usciva nelle sale il 15 dicembre del 1972, diventando campione d’incassi in Italia, ma veniva quasi subito sequestrato perché pieno di “esasperato pansessualismo fine a se stesso” (per le scene di nudo ripetute e altro). La Schneider fu persino bollata come un sex symbol e relegata a ruoli purtroppo poco espressivi, gioco perverso del cinema mondiale.
Marlon Brando aveva da poco finito di girare il capolavoro di Coppola “Il Padrino” e ne era uscito psicologicamente distrutto, pieno di paranoie sulla sua identità di attore: accettò il film in cui impersonava Don Corleone, solo per il compenso milionario. Era un uomo fragile, vulnerabile, un genio sul set ma incapace di equilibrio nella vita privata.
La fotografia era del pluripremiato solo all’estero, purtroppo, Vittorio Storaro; le musiche jazz del musicista e compositore argentino Gato Barbieri, successivamente arrangiate da Oliver Nelson. La sceneggiatura era di Bertolucci, Franco Arcalli e Agnès Varda. Una curiosità: il film, come dichiarò lo stesso Bertolucci, nacque da un suo sogno, quello di incontrare una donna sconosciuta per strada e di farci sesso.
Nel 1974 il film venne censurato, condannato al rogo, i negativi ritirati e distrutti. Lo stesso regista, Bertolucci, subiva una sentenza di condanna per “offesa al pudore” con perdita dei diritti civili per cinque anni. Se ne salveranno delle copie grazie ad una lettera che il regista scrisse all’ora Presidente della Repubblica, Leone, chiedendone la “grazia”: che però non poté venire concessa; solo che il Presidente palesò, da esperto di diritto, la possibilità di conservarne qualche copia, come si faceva per i corpi di reato, nei Musei Criminali; tre copie vennero così salvate nella Cineteca Nazionale. Solo nel 1987 sarebbe arrivata una ulteriore e definitiva sentenza di “non oscenità”.
Bernardo Bertolucci dopo la lettura della Sentenza della Cassazione del 29 gennaio 1976, che ordinava la distruzione di tutte le copie, compresi i negativi, del suo capolavoro “Ultimo tango a Parigi”, scriveva ai giornali dell’epoca una lettera piena di costernazione personale e che invocava i più elementari diritti sanciti dalla Costituzione Italiana: “Signori, magistrati, moralizzatori: vorrei sapere in quale forno crematorio sarà bruciato il negativo di Ultimo tango a Parigi. Con la vostra sentenza avete mandato in un campo di sterminio le idee al posto di alcuni milioni di spettatori adulti, gli stessi che si sono guadagnati il diritto di votare, di scioperare e di divorziare, colpevoli di aver amato, odiato o comunque di avere visto Ultimo tango. Ma non fatevi illusioni: nell’Italia del 1976 siete soltanto una minoranza in via di estinzione storica, naturale, biologica”.
Contraddizione del nostro Paese pieno di giudici e moralisti, dopo circa 40 anni la Siae ha calcolato che “Ultimo tango a Parigi” è al secondo posto tra i film più visti in Italia.
Ciò che scatenò le ire dei perbenisti e della censura è probabilmente quella famosa scena in cui Brando durante un rapporto forzato, ad una Schneider a glutei scoperti, spalma del burro sull’ano dice: “Voglio farti un discorso sulla famiglia: quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù. E adesso ripeti insieme a me: santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo…”. La Schneider non era stata preavvisata della scena dal regista Bertolucci né da Brando. La sodomizzazione doveva sembrare realistica. Così accadde. Ma la Schneider si sentì ferita, tanto da piangere lacrime vere di umiliazione durante le riprese.
Eppure il film è solo una drammatica constatazione di quanto grande sia tra un uomo e una donna quella incomunicabilità che rende difficile ogni staticità amorosa e morale. Unica certezza, la presenza fisica che non può surrogare.
Paul (Brando) in un altro celebre dialogo dice a Jeanne (Schneider): “Non abbiamo bisogno di nome qua dentro. Dimenticheremo ogni cosa. Tutto ciò che sappiamo. Tutto. Cose, persone, gli altri. Tutto ciò che siamo stati. Gli amici, la casa. Dobbiamo dimenticare ogni cosa, ogni cosa”.
Bell’articolo! Almeno secondo me. Spero che siano in tanti a leggerlo in questa Italia (e Puglia) bigotta, ipocrita e corrotta.