
La tradizione giuridica distingue due modi di produzione del diritto, la produzione legislativa e quella consuetudinaria.
L’interesse scientifico per la consuetudine si accompagna inevitabilmente alla riflessione sulla sua coesistenza con il diritto legislativo, affermatosi – quest’ultimo – in modo prevalente ed assorbente negli ordinamenti tardo-moderni e contemporanei.
La consuetudine, dopo una lunghissima storia nei sistemi organizzativi antichi e meno accentrati, ha perso sempre più la propria incidenza nella regolamentazione dei rapporti intersoggettivi. A partire dagli inizi del XIX secolo essa, insieme al diritto giurisprudenziale e dottrinario, è stata quasi eclissata in quei sistemi giuridici al cui interno venivano concretizzate le istanze di certezza normativa attraverso la codificazione del diritto. Il perseguimento di una sia pur tendenziale certezza normativa, infatti, è apparso incompatibile con i presupposti costitutivi della consuetudine, che è formata appunto dall’elemento oggettivo dell’usus o diuturnitas, ossia dalla ripetizione generalizzata, uniforme e costante nel tempo di un comportamento, e dall’elemento soggettivo della opinio iuris ac necessitatis, ossia dalla credenza o convincimento di dover tenere quel contegno a pena eventualmente di una sanzione.
Già ai tempi della raccolta giustinianea tra il 529 e il 534 d.C., al tradizionale patrimonio delle consuetudini (mores), della dottrina dei giuristi più autorevoli (responsa) e dei senatusconsulta, in seguito all’accentramento legislativo si erano affiancate fonti nuove come i rescripta dei funzionari centrali del princeps, o le constitutiones scaturenti dalla volontà imperiale. Famosi per i loro usi erano invece i popoli nomadi germanici dell’alto Medioevo, retti appunto da un insieme di consuetudini che venivano tramandate oralmente e che rappresentavano un fattore di identità etnica. La civiltà altomedievale, in generale, era incisivamente segnata dalla consuetudine, e i rapporti intersoggettivi quando non venivano risolti con la violenza erano sottoposti alle regole generate e cristallizzate nel tempo, trasmesse di generazione in generazione in una tradizione orale. Malgrado vi fossero delle riduzioni per iscritto, le consuetudini dei popoli germanici e non solo presentavano il problema dell’accertamento del loro contenuto specifico, della loro vigenza in un determinato territorio (secondo il principio territoriale), o per una determinata etnia (secondo il principio personale). I giudici medievali, quali che fossero in diverse giurisdizioni ed estensioni, come l’imperatore, il papa, il re, i vescovi, i conti, i signori fondiari, territoriali e feudali, dovevano essere coscienti delle consuetudini vigenti e delle metodologie di accertamento delle stesse.
Anche quando le regole sorte spontaneamente furono fissate per iscritto, la fonte consuetudinaria non perse la propria plasticità nell’esprimere i comportamenti sociali tipici di un popolo. La dottrina storica inquadra pacificamente i caratteri della consuetudine medievale nella versatilità, nella elasticità e al contempo nella perpetuazione della tradizione, e a questi caratteri riconduce la vitalità dei fatti normativi consolidati attraverso il tempo.
Tra i tanti ceppi consuetudinari emersi nell’età altomedievale, invero, l’analisi storica del diritto individua come maggiormente emerso quello feudale, sorto quale relazione interna alle comunità di combattenti franchi nonché retto sulla base degli usi di economie militari e rurali. Accanto al plurisecolare e malleabile sistema feudale, si affermò la signoria fondiaria, la quale, ampiamente produttiva di propri usi inerenti all’economia curtense, recepì molti degli schemi relazionali sviluppatisi appunto in ambito feudale. Durante l’epoca carolingia, poi, nei territori di regime imperiale come la Francia, i Paesi Bassi, buona parte della Germania e dell’Italia centro-settentrionale, i sovrani si fecero promotori di una imponente produzione legislativa, ma nonostante ciò in seno alla cultura giuridica le consuetudini etniche rimasero centrali. Nel corso del Medioevo, comunque, vi era una peculiare presenza della romanità tanto nelle fonti ecclesiastiche quanto nelle stesse consuetudini di matrice latina, ed in particolare nella cultura notarile e nella sopravvivenza dei testi giustinianei.
La dottrina dei Glossatori, nei secoli XI-XII, non fu indifferente al fenomeno giuridico consuetudinario, ed anzi sostenne la necessità di una interpretazione scientifica dell’apparato di usi feudali, per una omogeneizzazione del relativo ordinamento. I limiti che i Glossatori incontrarono in questa loro specifica operazione, però, furono riconducibili all’assenza della istituzione feudale nell’apparato romanistico-giustinianeo.
Nell’Europa continentale dell’età di diritto comune tale apparato conviveva con tutta una serie di ordinamenti particolari, e con le relative giurisdizioni. Il pluralismo ordinamentale, dal XII al XVIII secolo, dipendeva dalla covigenza del diritto romano-canonico con gli “iura propria” delle singole realtà territoriali e con gli “iura specialia” attributivi di diritti di stati personali, tra cui spiccavano le consuetudini feudali e poi anche gli usi mercantili. Questi ultimi rappresentavano il cuore del diritto consuetudinario, in quanto la loro elasticità rispondeva bene alle dinamiche esigenze della pratica commerciale.
Nella sua politica di contenimento delle autonomie locali nel Regno di Sicilia, Federico II, con il “Liber Augustalis” del 1231, stabilì che i giudici durante l’esercizio delle loro funzioni potessero far ricorso alle consuetudini cittadine a condizione che esse fossero ritenute giuste ed ammissibili, in quanto compatibili e quindi subordinate alla normativa regia.
Anche nel versante del diritto canonico, invero, la consuetudine ha trovato un proprio spazio paradigmatico, nel ventaglio delle fonti giuridiche: si pensi ad esempio ad una decretale di Gregorio IX che ha formulato la teoria secondo cui la consuetudine aveva forza abrogativa in presenza dei requisiti della “rationabilitas” e della “legitima praescriptio”. Questa forza abrogativa fu in seguito statuita dallo stesso Codex Iuris Canonici del 1917, al canone 27.
Nel pensiero giuridico inglese, figlio del Common Law prima che del successivo Rule of Law, invece, all’inizio del Seicento Edward Coke sostenne che il sovrano con i suoi atti non avrebbe potuto mutare alcuna parte della legge consuetudinaria comune, e ciò ha fatto pensare ad una prevalenza della fonte consuetudinaria costituzionale rispetto a tutte le altre fonti, all’interno della tradizione normativa non scritta in cui gli “statutes” ancora oggi costituiscono l’eccezione. Sino a tutto il Medioevo, comunque, la predominanza della consuetudine era pacificamente riconosciuta in dottrina.
Nel Regno di Francia dell’AncienRégime, invece, le regioni meridionali erano i cosiddetti “pays de droit écrit”, dove il diritto romano vigeva quale “consuetudine fondamentale”, e le regioni centro-settentrionali erano i cosiddetti “pays de droit coutumier”, dove il diritto aveva carattere essenzialmente consuetudinario, e dove il diritto romano non era considerato una fonte normativa in vigore bensì un insieme di princìpi coerenti e razionali. Altre regole consuetudinarie importantissime nella Francia pre-rivoluzionaria erano le “Lois fondamentales”, tra cui la legge salica sulla successione al trono, vero e proprio apparato costituzionale consuetudinario che si poneva come gerarchicamente superiore rispetto alle leggi regie.
I pensatori di ispirazione illuminista nel corso del XVIII secolo salutarono la consuetudine come una fonte che rappresentava lo scolo dei precedenti secoli oscurantisti, e condannarono il diritto della tradizione affermando al contrario l’esigenza di un ordinamento legicentrico e statocentrico. La stagione della Rivoluzione francese, e la connessa codificazione civile del 1804 sotto il regime napoleonico, segnarono un momento di svalutazione della fonte consuetudinaria. Nel diritto francese, poi, l’art. 7 della legge 30 ventoso, anno XII, abrogava le consuetudini generali e locali relative alle materie che formavano oggetto del Code Napoléon. Dal principio secondo cui la legge non poteva essere abrogata che da un’altra legge si dedusse il divieto della consuetudine contra legem.
Il rifiorire in dottrina della importanza delle consuetudini quali parti vive dello spirito del popolo, in seguito, si verificò con lo svilupparsi della Scuola storica e con il successo delle teorie di Friedrich Carl von Savigny, nella Germania del XIX secolo.
Passando al panorama italiano dei tempi dello Statuto Albertino esteso al Regno unificato, occorre primariamente rilevare come gli studiosi di storia del diritto pubblico hanno a più voci sostenuto che a far evolvere la monarchia costituzionale in monarchia pseudo-parlamentare, a partire dalla fine del XIX secolo, non siano state delle mere prassi bensì delle vere e proprie consuetudini costituzionali, attraverso le quali si è progressivamente instaurato un rapporto di dipendenza fiduciaria del Governo dal Parlamento.
Nell’Italia del XIX secolo, dal punto di vista civilistico, il codice civile Pisanelli del 1865 all’art. 48 delle disposizioni attuative sanciva che avuto riguardo alle materie in esso regolate le consuetudini, a cui il legislatore non si era riferito nella codificazione, cessavano di avere forza normativa. Si aprì così la discussione in dottrina circa la ammissibilità delle consuetudini praeter legem nelle materie non regolate dal codice, e la tesi prevalente fu quella restrittiva, anzitutto basata sugli strascichi del mito della completezza sistematica della codificazione. L’art. 5 delle disposizioni sulla legge in generale preposte al codice del 1865, poi, prevedeva l’abrogazione espressa e tacita della legge da parte della legge, e quindi escludeva implicitamente la consuetudine abrogativa. Anche l’art. 15 delle cosiddette Preleggi, preposte al codice civile del 1942 e valevoli per tutto l’ordinamento, ha confermato tale esclusione.
Prima dell’entrata in vigore dell’ancora vigente codice civile del 1942, la codificazione privatistica era ramificata nel codice civile Pisanelli e nel codice del commercio del 1882. Quest’ultimo riconosceva un più esteso rilievo alla consuetudine integrativa, poiché all’art. 1 veniva sancito che in mancanza delle leggi commerciali si dovessero osservare gli usi mercantili. Anche nel codice del commercio, però, vigeva il principio secondo cui era esclusa la consuetudine abrogativa.
L’art. 1 delle Preleggi del 1942, comunque, scolpisce una scala gerarchica di fonti del diritto, incasellando gli usi al quarto nonché ultimo posto, dopo le leggi che sono al primo posto, i regolamenti che sono al secondo, e le norme corporative che erano al terzo posto e che durante il regime fascista vigevano prevalendo sulle consuetudini. L’art. 8 delle Preleggi, ancora oggi vigente nel suo primo comma, è dedicato interamente agli usi, ed infatti in esso il legislatore ha statuito che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati, ammettendo così la figura della consuetudine secundum legem in senso stretto. Al secondo comma dell’art. 8 veniva stabilita espressamente la prevalenza delle norme corporative sugli usi, anche qualora questi fossero richiamati dalle leggi e dai regolamenti, salvo una diversa disposizione delle norme corporative medesime, poi abrogate con la fine del regime fascista.
Più sopra si è detto delle difficoltà che nel corso della storia gli operatori del diritto hanno incontrato nella dimostrazione pratica delle consuetudini; l’art. 9 delle Preleggi del 1942 non a caso ha sancito che gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria.
La dottrina, seppur marginalmente, ha pure riflettuto sul peso abrogativo della desuetudine, ma le tesi prevalenti spingono per una caratterizzazione non radicale dell’effetto abrogativo della desuetudine, dato che in generale un uso potrebbe sempre riaffiorare in modo spontaneo ed irriflesso all’interno delle relazioni tra i consociati, e sedimentarsi nuovamente nel tempo, entro i limiti di ogni specifico ordinamento.
Nel corso della storia si è assistito ad una intensa dialettica tra la fonte giuridica consuetudinaria e quella legislativa, e solitamente queste due tipologie di produzione normativa vengono ancora inquadrate come contrapposte. La scienza storico-giuridica del secolo XX ha riflettuto incisivamente ed in più fasi sulla natura e sullo sviluppo degli usi.
Una scuola di pensiero, in particolare, ha osservato che in realtà un ordinamento giuridico di stampo legislativo esiste solo se è efficace, ed è efficace solo se la maggior parte delle sue norme è spontaneamente rispettata o fatta rispettare, e quindi solo se si forma quella ripetizione generale, costante ed uniforme tipica della consuetudine. In questa prospettiva si è inserito l’autorevole studio scientifico di Norberto Bobbio, secondo il quale la legge e la consuetudine rappresentano non tanto le due contrapposte corsie di produzione giuridica, quanto i due momenti dialettici del complesso fenomeno della produzione giuridica. Egli, infatti, ha sostenuto che la differenza tra il diritto legislativo e il diritto consuetudinario consiste nel fatto che nel primo si forma primariamente la regola astratta, poi convalidata dagli usi, mentre nel secondo viene prima posto in essere un generale comportamento qualificato, anzitutto dal tempo, e in seguito questo comportamento viene fissato in una regola astratta.
Si consideri pure che la consuetudine come fatto normativo costituito inscindibilmente dall’elemento oggettivo dell’usus o diuturnitas, ossia dalla ripetizione generalizzata, uniforme e costante nel tempo di un comportamento, e dall’elemento soggettivo della opinio iuris ac necessitatis, ossia dalla credenza o convincimento di dover tenere quel contegno a pena eventualmente di una sanzione, è stata messa in dubbio o comunque relativizzata dalla dottrina bobbiana. Se in un primo momento Bobbio considerava la opinio iuris come un modo di conservazione della già sorta e vincolante consuetudine, e non come un presupposto costitutivo della stessa, in seguito lo stesso Autore ha problematicizzato la propria indagine. Egli, infatti, analizzando le quattro principali tesi sul fondamento e sulla validità della fonte consuetudinaria, ha contemperato le rispettive ragioni che rintracciavano tale fondamento e tale validità nell’autorità volitiva sovrana che consente determinati usi, o nel comportamento spontaneo degli utenti, o nella peculiarità delle materie regolate da tale fonte o, secondo la cosiddetta scuola libera del diritto dello storico Kantorowicz dell’inizio del XX secolo, nel riconoscimento applicativo del giudice.
Le dottrine storico-internazionalistiche italiane del Novecento ed in particolare le tesi di Riccardo Orestano, tra l’altro, hanno studiato il fenomeno consuetudinario come un fenomeno che riesce a penetrare i sistemi giuridici tutti. È stato osservato che la consuetudine sorge anzitutto dalle dialettiche tra le varie forze sociali, dal cui prodotto si afferma come generalizzante la forza che risulta di periodo in periodo dominante, sia sul piano locale che su quello internazionale nei rapporti tra gli Stati.