
Il libro di Michela Marzano (Rizzoli 2023)
Scegliere un titolo per il proprio libro è una questione di primaria importanza, impegnativa, tanto quanto scriverlo; credetemi.
Il titolo di un libro non deve solo racchiuderne l’essenza; deve intrigare, incuriosire l’eventuale lettore e questo è sicuramente uno dei titoli più efficaci in cui io mi sia imbattuta. Tanto da suscitare in me il desiderio di leggere il romanzo senza nemmeno conoscerne la trama.
È trascorso un po’ di tempo prima che io fossi pronta ad affrontarne la lettura e altrettanto prima che io la terminassi.
L’ho centellinato. Sorseggiato pagina dopo pagina come si fa con un liquore forte e prezioso.
Sin dal primo contatto con le mie papille gustative l’amaro della storia è emerso prevalente sovrastando la punta di dolcezza che, sporadicamente, si nascondeva tra le righe.
È un libro che parla di abusi. Prevalentemente sessuali, ma non solo.
È un libro che parla dei tanti “non detto” che costellano la vita di alcune persone.
È un libro sui limiti che non riusciamo ad imporre o che non siamo in grado di riconoscere. Un libro sul “consenso”.
È un libro che pone interrogativi, che parla di comunicazione, di percezione, di relazioni. Di rispetto.
– Ma come fanno le altre a farsi ripettare sempre? – è la domanda che segna il ritmo del romanzo.
Già, come fanno? Perché per certe persone è difficile esprimere le proprie emozioni? Porre un freno all’ altro? Perché per alcune è fondamentale il piacere dell’altro? Il piacere all’altro? Perché alcune persone finiscono sempre per recitare la parte della vittima? Scelgono relazioni che mettono a rischio la propria incolumità fisica ed emotiva? Perché?
Anna, la protagonista del romanzo, professoressa di sociologia in un’università parigina, affida ai suoi studenti il compito di trovare risposta a questi interrogativi indagando nelle storie di donne vittime di abusi sessuali.
Attraverso l’analisi sociologica del movimento femminista, denominato “Me too”, nato nel 2017 come risposta alle accuse pubbliche che alcune attrici famose mossero contro uno dei più grandi produttori cinematografici di Hollywood, Harvey Weinstein, la professoressa induce i suoi alunni ad una riflessione di più ampio respiro sul tema dell’abuso sessuale.
– Quand’è che si può parlare di stupro in una relazione? – la domanda con cui l’insegnante incalza i suoi alunni.
Emergono punti di vista contrastanti. Il dolore delle donne che spesso hanno lasciato accadere, senza aver la forza, la voglia, la consapevolezza necessarie per opporsi a storie amare e il disorientamento dei giovani uomini alle prese con un problema che spesso ignorano e altre volte fingono di ignorare, riconoscere il limite tra il consenso e l’abuso.
Quand’è che si può parlare di stupro in una relazione?
Le lezioni finiscono per divenire lo spunto per una riflessione più intima che porta tutti, in primis la stessa Anna, a cercare dentro il proprio vissuto, la risposta ad ogni domanda.
Anna ripercorre momenti della propria vita, richiamando a sé le persone che l’hanno accompagnata, attribuendo ruoli e responsabilità, cercando di individuare qualcuno che chieda scusa per tutto il dolore attraversato. Il finale mette in scena un ennesimo personaggio, a mio parere il personaggio chiave di ogni vita. Ma di questo non parlerò. Ovviamente.
E il lettore? Altrettanto ovviamente prende posto nell’aula, segue le lezioni insieme agli alunni, formula ipotesi, esprime pareri, sceglie con chi schierarsi in base al proprio vissuto e al proprio sesso. Ed è probabile anche che si affianchi ad Anna ripercorrendo le tappe della propria vita alla ricerca di quel qualcuno che gli chieda scusa o quel qualcuno a cui chiedere scusa.
Tralasciando il tema dell’abuso sessuale che ritengo una questione decisamente troppo delicata per essere trattata in uno spazio così ristretto, mi soffermerò sul concetto espresso nel titolo: chiedere scusa.
Gli ultimi anni della mia vita mi hanno insegnato che ogni cosa ha un senso profondo e per certi versi inspiegabile logicamente, che ogni avvenimento è un tassello nella costruzione del proprio percorso e alla luce di queste considerazioni ho imparato a sostituire nel mio vocabolario la parola “scusa” con “mi dispiace”.
Mi dispiace di averti fatto soffrire. Mi dispiace di essere stato causa di dolore per te. Mi dispiace se …
Ho sperimentato che spesso ci si ritrova in relazioni duali, non necessariamente sentimentali, in cui uno dei due provoca sofferenza all’altro. Spesso accade nostro malgrado. Ci ritroviamo in situazioni assurde, incresciose, e a poco serve la consapevolezza che “il tutto fa parte del percorso”. Fa male. E questo ha una sua rilevanza.
– Mi dispiace se … – è un abbraccio avvolgente, consolatorio per chi soffre. E un grande gesto di coraggio per chi riesce a pronunciarlo.
– Mi dispiace se … – risana ferite emotive, a volte profonde. Per entrambi. Fa bene.
Non sempre però questa frase risanatrice viene pronunciata. I casi della vita sono molteplici ed i finali auspicati non sempre si realizzano.
Che fare allora? Veramente vivere nell’attesa che qualcuno ci chieda scusa?
Lascio ad ognuno di voi la risposta; in cuor mio, io ho gia deciso.