Si è conclusa il 28 agosto la quarta edizione dello Sponz Fest, ideato da Vinicio Capossela

Non si può vedere tutto, bisogna fare delle scelte e la scelta ricade su Calitri, che è la meta del nostro viaggio, nonostante lo Sponz Fest distribuisca il suo programma in cinque comuni dell’Alta Irpinia. Per arrivarci iniziamo perdendoci sulle strade che, curva dopo curva, passano dalla Puglia per la Basilicata e arrivano in Campania sebbene, c’è da dirlo, qui si sentano tutti lucani a pieno titolo. Ora, le strade che scegliamo non sono di certo le più veloci ma ci consentono di ammirare dei paesaggi, delle vallate, dei boschi che appaiono fiabeschi tanto sono disabituati gli occhi a quegli scenari scarsamente urbanizzati e la solitudine sulla strada è una sensazione meravigliosa.

Ci arriviamo a metà pomeriggio dell’ultimo venerdì di festival, la mappa e il programma ci portano dritti a Borgo Castello, la parte più antica e disabitata di Calitri che, dal cucuzzolo su cui è posto, domina l’intera valle dell’Ofanto, la valle dell’eco a cui, se ci si parla, se ci si urla contro, quella, la valle, per tre volte risponde.

L’Antigone è lo spettacolo itinerante che incontriamo per le strade e le terrazze di Borgo Castello; lo conduce Marco Martinelli del Teatro delle Albe di Ferrara assieme a un gruppo di giovani calitrani chiamati a fare da coro i quali, invitati a vestirsi di nero durante lo spettacolo, si presentano indossando i loro vestiti da cerimonia e la loro voce corale rieccheggia nella valle dipinta dagli ultimi raggi di sole della giornata mentre Antigone solleva la polvere nel suo gesto anarchico che afferma la legge morale contro l’arroganza della legge politica.

Lo Sponz è anche e soprattutto questo, festa delle tradizioni e dei costumi, degli sposalizi e degli sponzali, la festa antica, dionisiaca, sponzante, fatta di grano, terra e sudore e alla fine di vino. La festa che dissipa e consuma, per ricordarci che non bisogna avere paura di vivere, ma bisogna impiegare tutto il dono della vita affinché quando karos, la morte, arriva con la sua falce, non le resti niente da prendere.

Sollevare un polverone è l’obiettivo dichiarato della quarta edizione dello Sponz Fest che già nel titolo recita “Chi tiene polvere spara”. «Chi tiene polvere spara – scrive il direttore artistico Vinicio Capossela – è un modo di dire calitrano che in paese significa: chi ha qualcosa da dire lo dica, chi ha qualche mezzo lo usi. Anche se è un mezzo povero come la polvere. Anche se si tratta solo di vento e di nuvole. È un invito al fuoco d’artificio, a tirare fuori quello che abbiamo dentro. Un invito a non subire le cose, ma a farle. Un invito all’azione e alla speranza. Alzare la polvere dalla terra su cui si è posata, sollevare un polverone, alzare la testa nella confusione delle voci. I greci antichi con la parola anàstasis indicavano il sollevarsi, significando allo stesso tempo resurrezione, ma anche insurrezione. Ecco, “chi tiene polvere spara”, è l’insurrezione che si oppone all’oblio, al cammino della polvere che copre terre ed esistenze nell’oblio. La polvere, del resto, a partire dalla metafora biblica, è tema che riguarda il tempo, la dimenticanza, l’erranza. Che riguarda l’uomo, la sua caducità, l’humus da cui prende il nome. Gesù scrive nella polvere il comandamento “Non Ammazzerai”; alla polvere si rivolgono molte domande, come scriveva l’indimenticato John Fante».

E la polvere si solleva nel ballodromo montato al venerdì sera nel piazzale dell’Eca mentre sul palco si alternano fino all’alba in una maratona danzereccia le orchestre Extraliscio, la Banda della Posta che vanta oltre duemila sposalizi, L’Orchestrina di Molto Agevole che vanta componenti come Gabrielli dei Calibro 35 e D’Erasmo violino degli Afterhours, e ancora Arizona Dream dalla Serbia, Mariachi Tres Rosas e altre bande il cui nome alla fine ci sfugge presi come siamo nell’arena a dimenarci tra liscio, tarantella, batticulo, polka e chi più ne ha più ne metta. Esausti non ci resta che spendere gli ultimi sponzini, la moneta ufficiale del festival, per rifocillarci con un crostrone di caciocavallo impiccato e della buona birra prima di coricarci stanchi e sponzati.

Il sabato è il giorno del gran finale, il concerto delle Canzoni della Cupa di Vinicio Capossela alla Sponz Arena, il campo di calcio di Calitri riadattato allo scopo con tanto di toro meccanico. L’attesa è lunga, il programma giornaliero prevede la visita ad una mostra del compianto Mario Dondero, maestro di fotografia ineguagliabile, e un passaggio in barberia per ascoltare i racconti e i canti degli anziani. Non è granché e il tempo scorre lento fino al concerto, ma appena si spengono le luci sul palco entra la bestia del grano, un Capossela trasformato in spaventapasseri che inizia il suo viaggio nella Cupa, che nella toponomastica locale ricorre spesso nelle zone poco battute dal sole a causa delle montagne, luoghi di buio, di misteri, luoghi in cui le pure ancestrali prendono vita.

Il viaggio è lungo, il concerto va avanti fino a notte inoltrata in compagnia di Vinicio e dell’eterna Giovanna Marini che tanto ha ispirato quei brani, finché sul palco sale l’ospite più atteso, quel Gianni Morandi, oramai stella dei social network, che infiamma in un nonnulla il pubblico sponzato da tante ore di concerto. Partono i duetti e gli omaggi reciproci a Se perdo anche te e La padrona mia, si ritorna a ballare, a sudare, a vivere.

È ormai notte fonda quando si ritorna a casa, si ripensa ai balli, alle canzoni, agli ospiti, a Gianni Morandi che “è un mito”, ma l’ultimo pensiero di questo viaggio in Alta Irpinia va a quel giovane calitrano colla barbetta incolta posto a guardia di Borgo Castello, con i pensieri spazzati dal vento che guarda senza sosta verso la vastità della valle che si apre ai suoi piedi e che se gli chiediamo: «Quanti abitanti fa Calitri?», lui ci risponde: «Circa tremila più qualche mulo e qualche gallina». E se ancora gli chiediamo: «Che ci resti a fare?» – «Devo sparare», risponde.