dedicato ai miei nonni,
dedicato agli anziani ospiti dell’Opera di don Grittani

Tremano, fragili foglie al vento, le tue mani.
Morbide conchiglie rugose che cantano e ripetono echi di tempi lontani, voci di bimbi e lamenti di fame, grida di guerra, bombe che esplodono, madri che squarciano il silenzio per la morte di un figli.
Tremano, le tue mani, qualche chiazza color caffè, mentre accarezzano, amabili, le mie.
Scusami.
Scusami se ho paura di toccarle. Ho paura di ferire, di rovinare, come quando si sfiorano le pagine secche di libroni ingialliti e secolari, il timore di guastare qualche cosa che il tempo ha cosi sapientemente modellato giorno, dopo giorno, dopo giorno.

Che sciocco che sono… ma tanto, tu, ingenuamente sai capirmi.

Non esiti a prendermi e a stringermi con quelle poche ed esili forze che hai in corpo.
Sei estremamente, dolcemente, pericolosamente fragile.

I tuoi occhi. Quelli, no, il tempo si è arreso ad essi, non ha potuto far nulla per cambiarli e invecchiarli. Brillano, umidi, come sempre. Come quando, decenni fa, guardavano un mondo che è spaventosamente cambiato, come quando fissavano altri occhi umidi nei quali perdersi, affondare e lasciarsi morire. Dimmi… Dimmi cosa non hanno visto i tuoi occhi. Hanno visto le stelle, quando non esistevano le mortificanti luci artificiali della città a coprirle. Hanno visto la terra, la zappa, il seme, che poi si cambia in fiore, che poi diventa frutto. Hanno visto la Germania, l’Italia, spazi infiniti e… hanno visto le onde del mare. Le vedo, sai? Nell’azzurro dell’iride dei tuoi occhi. Sento addirittura l’odore pungente di salsedine nelle narici, l’odore di quella semplicità così saziante, così appagante.

Apri il tuo sorriso. Sai, ho imparato con te che i più bei sorrisi sono quelli del cuore e che quelli che si snodano spontanei sui nostri visi non sono nient’altro che il riflesso di quello che abbiamo nel profondo di noi stessi. Quante maschere in giro, quanta ipocrisia. Quante lame si nascondono dietro trentadue denti, quante lacrime dietro quei pallini gialli digitali che inviamo con i nostri cellulari a destra e a manca. Tu no, la purezza e la semplicità del tuo cuore non sanno nemmeno cosa vogliono dire questo. Ridi con la stessa gioia di quando il pane arrivava caldo in tavola, come quando ti riunivi la domenica per preparare e gustare il sugo con tutta la famiglia, con lei sempre dietro ai fornelli e tu che la sgridavi per farla sedere e stare un po’ con i parenti. Ridi come quando le facevi quei complimenti tanto imbarazzanti che allietavano il cuore. All’epoca anche il semplice «ti amo» aveva un altro suono. Adesso è lo squillo di una notifica, due parole che cambiano come mutano le previsioni meteo.

Che bello ascoltarti parlare. Non ti do che il via ed ecco che tu parti con le tue storie di guerra, di quando quel vescovo anni e anni fa ti difese, rimproverando i poliziotti che ti imponevano di lasciare il posto sul treno che avevi occupato. Il sorriso con cui mi racconti con due colpi di tosse si trasforma in un pianto liberatorio di commozione, ti sei sentito veramente apprezzato, amato, rispettato nella tua dignità di uomo nonostante non sapessi la grammatica, la fisica, la matematica e le tabelline.
La storia, però… Quella la conosci. Tu sei stato la storia, anzi, lo sei tuttora. Tu l’hai fatta, ne sei stato protagonista e adesso me la consegni con i tuoi racconti come un dono prezioso. È bello sentirti parlare di don Achille Salvucci, di come tanti anni fa salvò tante vite costruendo la diga al porto di Molfetta, dove prima le navi si scontravano sulla banchina o di don Ambrogio Grittani, il «prete degli accattoni» che incitava i seminaristi (che rispondevano con piacere) ad andare nel pomeriggio ad aiutare nella realizzazione e nel progetto dell’Opera di san Benedetto Giuseppe Labre, adesso casa di riposo, che ora porta il suo nome e grazie al quale ci siamo incontrati.
Siamo in debito con voi. Abbiamo perso il senso della storia, della partecipazione attiva alla vita della città, abbiamo perso il gusto di essere popolo, l’interesse di capire che cosa sta succedendo al mondo nel quale viviamo o, almeno, al fratello che abbiamo accanto.

Se imparassi ad ascoltar le vostre voci. Se capissimo quanto siate parte, come testimoni del passato, del nostro futuro, della nostra coscienza, della parte più profonda del nostro io. Siamo foglie che presuntuosamente allungano i rami, puntando in avanti, verdi, giovani, ma che abbiamo dimenticato voi, le nostre radici, ai piedi dell’albero del tempo. Ci date linfa, valori, vita e noi non sappiamo neppure guardarvi.

Da oggi grazie a te io sono una persona diversa, più ricca, perché ho conosciuto qualcosa di me che altrimenti non avrei mai saputo.

Hai visto le stelle, la Germania, l’Italia, la terra, le onde… Ed oggi hai visto me. Sono entrato nella tua esistenza, nella tua storia, nell’album dei ricordi della tua vita vissuta.

Non vorrei andarmene, per non lasciarti solo, ma devo. Devo tornare al mio mondo, alle mie persone e con loro costruire la stori, la mia, la loro.

Fatti stringere un’altra volta la mano.
Adesso non ho più paura.