
Siamo sempre più immersi in potenziali di comunicazione.
In potenza o impotenza?
Sono così tanti i canali che a volte, scegliendoli tutti, decidiamo di non comunicare.
Un giorno, complice un intervento pubblico al quale ero invitata a parlare di felicità, ho – in modo prolifico – utilizzato whatsapp e ad alcuni dei miei contatti ho chiesto appunto, “se ti dico felicità, cosa mi dici?”.
Un semplice gioco di libere associazioni, un caldo gioco di relazione.
Qualcuno l’ha fatto per intero, rispondendo con la prima cosa che arrivava alla mente, qualcuno lo ha fatto a metà, argomentando.
Li ho rassicurati e ho mantenuto la promessa: avrei goduto delle risposte senza far inutili interpretazioni.
Con apertura emotiva ho appreso le risposte.
Immagini, colori, suoni, sensazioni.
Non avevo pensato a nulla. Ho azzerato le aspettative esperendo così uno dei colori della felicità: lo stupore.
Suoni soavi come “luce”; “istante fugace”; “azione”, “giallo”; “bicicletta”; “volti nuovi”; “la reflex”; “presente”; “sorrido”.
Ho appuntato tutto e scrivendo mi sono accorta che troppo spesso, nella presenza o nell’assenza della stessa, veniva fatta un’attribuzione esterna, come se essere felici fosse tutto ciò che accade fuori da noi.
Qualcuno mi ha scritto che bisogna farsi trovare e trovare pronti.
E noi? E la nostra responsabilità individuale, quella da agire per essere felici, dov’è?
Alejandro Jodorowsky, regista, fumettista e inventore della psicomagia, ci ricorda che abbiamo più neuroni di quante sono le stelle del firmamento.
Che esiste una luce, in ognuno, capace di brillare.
Ottavio Rosati, psicoterapeuta e psicodrammatista, scrive che la ricerca della felicità è una politica eroica che bisogna portare avanti con coraggio. Un rischio che vale la pena di correre. Raggiungerla è un’ Arte.
Troppo spesso abbiamo paura di essere felici. Troppo abituati a ciò che siamo. Il rischio di lasciare ciò che conosciamo per lanciarci in un ignoto fa troppa paura, ci immobilizza e ripercorriamo sempre le stesse strade, quelle che conosciamo, così non rischiamo di perderci perpetrando gli stessi errori per poi fermarci, lamentarci, sentire addosso tutto il dolore e provare a ripartire. Sempre dallo stesso punto, sempre percorrendo le stesse strade.
Se è vero, com’è vero, che i fiori di loto nascono dalla melma, ognuno di noi può familiarizzare con i bulbi di loto che ci abitano; scorgere i propri e quelli che popolano il mondo perché, troppo spesso, dimentichiamo che siamo parte di un unico universo.
La parola felicità ha la stessa radice di fecondo, fertile. L’abbiamo in potenza, nella possibilità che accada e nella responsabilità di agirla.
Secondo il dizionario della lingua italiana, felice è colui che, avendo raggiunto la piena soddisfazione di un desiderio, di un bisogno materiale o spirituale, si sente compiutamente pago e sereno.
Nel desiderio c’è la volontà e nel bisogno la necessità.
Cosa possiamo concretamente?
Un piccolo suggerimento ce lo consegna una psicoterapeuta e psicodrammatista straordinaria, Anne Ancelin Schützenberger, nel ricordarci che ogni giorno abbiamo il dovere di fare cinque piccole azioni; abbiamo il dovere di dedicarci cinque piccoli momenti felici, nei gesti quotidiani.
Sciogliere lentamente lo zucchero nel latte, prendere il caffè stando seduti, mangiare un’arancia sporcandosi le mani, sorridere a chi incontriamo, ringraziare per un gesto ricevuto.
Se ti dico felicità, cosa mi dici?
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