Il matto, lo strano, il folle, il pittore degli animali

Se avessi incontrato nella vita Antonio Ligabue mi sarei di certo schivata, avrei provato pena, emotivamente me la sarei data sicuramente a gambe. Come la donna del video che ho guardato nel mentre passavo in rassegna le sue opere in mostra. La donna recalcitrava, Ligabue tentava una carezza e un bacio in modo a dir poco imbarazzante.

Ne era consapevole egli pure delle sue anomalie: nei suoi autoritratti si dipinge torvo e malato, pieno di pustole e a volte sangue e insetti a violentarlo, a parassitare suo malgrado.

Se avessi incontrato l’uomo che dormiva nelle baracche e dava di matto avrei pensato che dal letame non nasce niente, solo fetore e vermi, mero dolore appunto.

Antonio Ligabue, il pittore degli animali come egli stesso soleva definirsi, ha dipinto bestie e fiere come nessuno mai. Scevro da qualsiasi insegnamento scolastico, avvezzo solo a sordo dolore per una vita tremenda, ha buttato su compensati e tele il malore e la sua sporadica, infantile pace. E sono scene di combattimenti in una natura rigogliosa ed esotica. E sono di contro paesaggi bucolici e dolcissimi della sua amata terra natia.

Come atto dovuto alla natura stessa, l’animo si placa nel ricordo di un tempo passato ma che resta idillico nella mente. La gioia e il dolore, il bene e il mare, il tutto miscelato in colori fortissimi, pennellate vigorose che si alzano dalla tela come schegge di sangue o pungenti gocce di pioggia nel temporale.

Se Antonio Ligabue non è mai entrato nel mondo reale, nella società detta per bene, è stato in grado di fare il contrario.  Ha dato voce agli animali che lo capivano e da cui soleva andare, nei pollai e nelle stalle realmente e nelle giungle idealmente. Tanto era il matto, lo strano, il folle.

Alla vigilia dell’ultimo malore che lo porterà all’ennesimo ed estremo ricovero dipinge qualcosa di anomalo. È un autoritratto stranamente a figura intera, con abiti alla moda, la moto sfavillante appena acquistata, la tavolozza in mano a dire: sono un pittore. È una carta d’identità commovente verso i propri simili, un tentativo estremo di inclusione.

Se avessi girato la testa al rombo della sua moto avrei a quel punto sorriso al bimbo felice col suo giocattolo.

Se l’avessi sentito urlare “io sono un grande artista” mentre girava coi quadri in spalla appesi ad una corda, mi sarei incuriosita. Sempre penso, mentre guardo un emerito sconosciuto, chissà che perle nasconde.

Ma mai e poi mai avrei pensato che un artista possa essere malato e solo, emarginato e strano.

Un artista è ciò che crea. Ciò che trasmette, quello che dona.  Un artista è bellezza.

Oggi è un grazie corale al pittore, perché all’uomo le scuse sarebbero tardive.

Mi piace pensare che le addenterebbe famelico e poi, ben sazio, si accoccolerebbe su grandi foglie verdi, l’orecchio teso ai fruscii, giaciglio puro per esseri puri!