L’alfabeto di Dante
L’odierno Alfabeto di Dante doveva essere dedicato alla seconda parte della disanima della felicità nella Commedia. L’attuale esperienza legata all’epidemia da Corona virus, però, mi ha portato alla mente una bella pagina di Alberto Asor Rosa dedicata al verso che sancisce l’epilogo della prima cantica: «e quindi uscimmo quindi a riveder le stelle» (Inf. XXXIV, 139). Sappiamo che l’ultima parola delle tre cantiche è proprio «stelle». Scegliendo questa parola il poeta decide di far attraversare tutto il poema «da una progressiva attrazione verso l’infinito e l’eterno, di cui le stelle sono, in parola di luce, il linguaggio» (I. Del Lungo). Le stelle dicono l’ansia di cielo che il pellegrino vive e sperimenta durante il suo viaggio; tanto più nell’inferno, dove Dante fa esperienza del «doloroso ospizio» che imprigiona i dannati, del «cieco carcere» che priva le anime della luce del bene.
Oggi l’epidemia ci costringere a cambiare le nostre abitudini, a vivere sospesi fra la paura del contagio e il rischio della morte. Ma essa non può uccidere la speranza. Che cosa può significare questa parola oggi? Mentre siamo nel pieno della battaglia, cosa essa può sussurrare al nostro cuore?
Lascio la parola ad Asor Rosa: «“e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Capite? “E quindi”: passando di lì; perché la sorte non sempre ci consente di passare per dove vorremmo. Occorre adattarsi alle circostanze, sopportare le sofferenze, affrontare i disagi e le fatiche di condizioni apparentemente inaccettabili. Dante è arrivato “lì” passando attraverso tutti i segmenti del dominio infernale: “quindi” – anche se non in senso letterale – potrebbe significare questo: “di lì, attraverso l’inferno”, da dove nessuno avrebbe mai pensato che si possa tornare.
E pure “uscimmo”: è la conclusione miracolosa, straordinaria, del “transito”. Non è un “arrivo”, si badi bene: è un’ “uscita”. Un’uscita dal buio, dalla costrizione, dalla paura.
E, nell’atto di uscire, lo sguardo, quasi involontariamente, si volge, non “intorno” – come forse ci si aspetterebbe – ma verso l’alto. L’ “alto” è la direzione più umana, quella che ci distingue dagli altri esseri viventi, a noi pur sì cari, che sono impediti a farlo.
E, volgendo lo sguardo verso l’alto, non scorgiamo il sole, troppo intenso, che potrebbe solo abbacinarci: ci toglierebbe la vista proprio nel momento in cui l’abbiamo riacquistata. Siamo ancora proprio nel pieno della notte; l’aurora è di là da venire, ma la limpidezza dell’aria e del cielo ci fa presagire che verrà; che, addirittura, è vicina. In quella luce sospesa – né luce né giorno, si direbbe, né tenebre né chiarore accecante – vediamo sopra di noi, discrete e affettuose, le stelle.
(…) E quando questo accade, il cuore si riempie di nuovo di confidenza e di speranza. Scopriamo all’improvviso – pur dopo averlo riletto tante volte – che quel verso dantesco non è solo il più bello ma anche il più ricco di “sensi” che sia mai uscito dalla penna di un poeta italiano. Parla di noi, e di ognuno di noi. Il Male, e la fatica che ci è costata superarlo, sono dietro le nostre spalle: possiamo riposare le stanche membra; ci guardiamo intorno trasognati e sorridenti; ci sentiamo in pace con noi stessi. Una nuova storia è cominciata» (Alberto Asor Rosa, in Storia Europea della Letteratura Italiana, Einaudi, 2009).