Papa Francesco: «Non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato»
San Salvador, 12 marzo 1977, una strada polverosa che porta alla parrocchia Aguilares, nel paese El Paisnal. Sono in cinque nel fuoristrada condotto dal sedicenne Nelson Rutilio Lemus. Manuel Solórzano, il gesuita quarantottenne Rutilio Grande García e due bambini, i soli che sopravvivranno alla pioggia di proiettili esplosi dal commando capeggiato da Benito Estrada. Fu Monsignor Romero a celebrare le esequie dell’amico sacerdote, ucciso perché coordinava un gruppo di campesinos che (ri)occupava le terre sottratte agli stessi contadini dai latifondisti. I biografi di Óscar Arnulfo Romero y Galdámez concordano nel ritenere che questo drammatico episodio abbia ulteriormente “radicalizzato” la predicazione e l’azione pastorale del vescovo che finì per entrare in rotta di collisione sempre più esplicita con gli ambienti della destra militare e paramilitare salvadoregna, responsabili dell’uccisione di padre Rutilio.
San Salvador, 23 marzo 1978 Óscar Arnulfo Romero y Galdámez non usa certo parole paludate: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia Nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale non ha l’obbligo di essere osservata. È tempo di recuperare la vostra coscienza e di obbedire prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, la Legge di Dio, la dignità umana, la persona, non può restare silenziosa davanti a tanta ignominia. Vogliamo che il Governo comprenda che non contano niente le riforme, se sono tinte di sangue. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più clamorosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».
Il giorno successivo, durante la celebrazione eucaristica, un sicario uccise Mons. Romero con un solo proiettile. Nel corso dei funerali, l’esercito aprì il fuoco contro la folla presente all’esequie che non verranno nemmeno concluse: una strage.
Si è molto discusso del complesso rapporto con Paolo VI, prima, Giovanni Paolo II, poi. Si è discusso se Mons. Romero dopo l’uccisione di padre Rutilio stesse riconsiderando le posizioni della c.d. teleologia della liberazione che, in realtà, fino ad allora non aveva mai condiviso. Certo è, invece, che l’aspra ostilità generata dalle sue posizioni apertamente in contrasto con gli interessi del governo (e di quella parte della chiesa salvadoregna che fiancheggiava l’esecutivo) sopravvisse all’eccidio. Lo ha ricordato, Francesco, ad un gruppo di salvadoregni in pellegrinaggio a Roma, parlando a braccio nella sua lingua madre: «Il martirio di monsignor Romero non fu solo nel momento della sua morte: iniziò prima, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato».
Roma, 30 ottobre 2015. Francesco è stato diretto e persino duro. «Non parlo per aver sentito dire. Ho ascoltato queste cose. Solo Dio conosce la storia della persona. E vede se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua».