
“L’abito nuovo”, al Castel dei Mondi, cronaca di un trionfo annunciato: tanta roba!
Da spettatore plaudo con gratitudine al coraggio della Compagnia La Luna nel letto, di portare in scena, quasi ad ottanta anni di distanza dalla sua prima rappresentazione nel 1937 al teatro Minzoni di Milano, l’opera teatrale “L’abito nuovo” dei maestri Eduardo De Filippo e Luigi Pirandello. Un’opera nient’affatto lontana, come dimostrato dalla piacevole serata trascorsa il 31 agosto scorso presso il Teatro Comunale di Ruvo di Puglia.
Sì perché, se lo scopo del teatro è quello di rappresentare la realtà per cambiarla, per spronare la società ad evolversi per il meglio a fronte delle brutture quotidiane, recuperando, se vogliamo, quel senso di catarsi proprio della tragedia greca, allora si deve dire che i maestri De Filippo e Pirandello erano avanti anni luce rispetto a noi.
Come non intravvedere la contemporaneità di Michele Crispucci in quell’abito logoro, dismesso e donatogli dall’Avvocato presso cui lavora, “quel vestito che porta addosso come il cane porta il pelo suo”, comune a tante persone che lottano, non si piegano al comune clientelismo in nome della propria dignità? Come non intravvederne la medesima disperazione quando a malincuore accetta l’eredità della defunta moglie nonché soubrette Celie Buton, una poco di buono per l’epoca, riducendolo alla follia proprio perché non è più se stesso, non è in grado di essere ed esprimere più se stesso, per poter accontentare chi gli sta intorno ed averne il consenso???
Una introspezione psicologica che rasenta quasi la schizofrenia, la nevrosi, o altri disturbi psichici legati alla impossibilità di essere, di esprimere se stessi, che oggi sono comunemente diagnosticati, ma che allora erano del tutto nuovi. Se vogliamo anche una mancanza di autostima, la necessità del riconoscimento da parte degli altri, delle maschere che ci circondano, che esplode alla fine, quando nel gesto di strappare il bustier alla propria figlia, appartenuto a sua moglie, Michele Crispucci riafferma la propria dignità, ma riafferma anche la dignità di tante donne costrette a fare la vita, come si diceva un tempo, per sopravvivere.Giustamente Clara, amica della moglie, interviene nel secondo atto dell’opera, quando i furbi accattoni cercano di arraffarsi la “roba” appartenuta alla defunta e che loro non si sono guadagnati, proprio perché non conoscono tutte le umiliazioni che la donna ha dovuto sopportare. Lei, che “teneva due occhi che parevano due stelle”. È evidente il riferimento a tante altre donne costrette a tutt’oggi a vendere il proprio corpo per sopravvivere, ovverossia un monito a tante ragazze che praticano sesso on line per fare “la bella vita”, inconsapevoli dei soprusi e delle violenze che altre donne hanno dovuto subire per riscattare la loro condizione sociale.
La “roba”, per la quale tutti sono indotti ad una prostituzione economica e morale che quello squarcio finale ha voluto significare, accompagnata dal saluto finale del maestro Eduardo De Filippo, una modernità che per nulla in contrasto con il canovaccio dell’opera. In una società globale dove la velocità la fa da padrone, dove conta il successo ed il profitto immediato, quello squarcio ci richiama all’obbligo che abbiamo di entrare in contatto con la parte più intima di noi, di non tradire i valori morali cui siamo stati educati.
Ed a tal riguardo un plauso infine meritano gli attori, oltre che per la loro maestria, per l’umiltà che trasudavano nell’approcciarsi ad un’opera tanto ricca e variegata, quanto complessa, nel compiere bene il loro dovere, una compagnia di ben dodici attori che non ha temuto, appunto, di misurarsi con un’impresa che poteva sembrare ardua a motivo della “vetustà” dell’opera, in quanto non suscettibile, presumibilmente, di risultati economici immediati, ma che invece, si è rivelata un trionfo. È altresì un ulteriore suggerimento, per noi tutti, per non lasciarci ingabbiare dall’incantesimo della roba?