
Per un’etica del viandante…
Uno dei dibattiti che ha infiammato maggiormente l’estate italiana è quella in merito al presunto risveglio del razzismo nel nostro Paese. Episodi come lanci di uova, colpi di pistola, dileggi pubblici verso gente di colore o etnia diverse dalla nostra ha scatenato una discussione sui social e sui mezzi di informazione. Ma anche la possibilità di assistere a episodi di violenza perlomeno verbale è una cosa oramai consueta nel corso della giornata, al pari di un commento sul caldo o le stagioni che cambiano: per strada, al bar, da sconosciuti, conoscenti, parenti. Così si sono creati duenetti schieramenti: da una parte chi minimizza parlando di episodi semplicemente goliardici dovuti magari alla mancanza di educazione; altri che accusano soprattutto il leader della Lega Salvini di aver aizzato con espressioni come “pacchia” e “crociera” la parte peggiore di molte persone.
Allora razzismo sì, razzismo no.
In realtà, se analizziamo i dati, quelli per esempio presentati nel rapporto poco rassicurante di Amnesty International, molte delle campagne elettorali avvenute tra il 2017 e il 2018 in Europa e Africa hanno alimentato sentimenti d’odio, razzismo e xenofobia. In Austria, Germania e Paesi Bassi, alcuni candidati hanno utilizzato a proprio vantaggio preoccupazioni sociali e economiche verso processi migratori o minoranze etniche o religiose come causa di povertà e delinquenza.
Anche in Italia, durante gli ultimi mesi di campagna elettorale Amnesty International, analizzando nel dettaglio i profili social di tutti i leader, è arrivata alla conclusione che i tre partiti della coalizione di centrodestra si sono spinti più di altri in dichiarazioni fortemente discriminatorie. Primo fra tutti Matteo Salvini che in 116 dei suoi discorsi ha discriminato migranti e rifugiati, rom, donne, lgbti e alimentato sentimenti di islamofobia.
È altrettanto vero che parlare degli italiani come popolo razzista sarebbe indubbiamente qualcosa di ingiusto, se non fuori luogo. In tal senso, a nostro avviso, l’educazione e la scuola possono fare molto; aprire innanzitutto frontiere mentali. Insegnare, oggi più che mai, ad essere “cittadini del mondo”. Parliamo forse della sfida più impegnativa del presente e del futuro. L’istruzione, sotto questo aspetto, dovrebbe essere il più potente volato per sentirci parte attiva dei processi in atto, come dicono Martha Nussbaum e Kwame Anthony Appiah, a considerarci cosmopoliti e non più semplicemente americani, indiani o europei. Dalle scelte politiche che uno Stato prende sull’istruzione, può dipendere enormemente il futuro delle generazioni successive. Scuole e università di ogni parte del mondo dovrebbero avere il compito urgente e prioritario di far sviluppare negli studenti “la capacità vedere se stessi come membri di una nazione eterogenea(come sono tutte le nazioni contemporanee) e di un mondo ancora più eterogeneo, e di comprendere qualcosa della storia e del carattere dei differenti gruppi che lo abitano”(M. Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino, 2011, p.96). Il sentiero tracciato, piaccia o no, è quello di un’etica del viandante, che fissa di volta in volta i paletti senza cercare scorciatoie rassicuranti, e che non fissa i suoi confini nella geografia di un territorio, ma che elabora e fa propria la diversità dell’esperienza come una necessità antropologica. Questo sentiero è un modello di cultura che educa perché non immobilizza una volta per tutte, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni. L’educazione del futuro non può non guardare a un’etica che fa della rinuncia al confine la sua cifra fondamentale.
Giovanni Capurso
Sono d” accordo su tutto tranne che sulla tentazione a minimizzare gli episodi di vero razzismo. Scusate come definire la riduzione in schiavitù dei migranti sfruttati nei campi di Puglia Calabria Campania? Gli italiani non sono quelli che hanno accettato le leggi razziali e consentito i viaggi dei treni carichi di ebrei italiani per i campi di sterminio? Mi fermo qui per pietà di patria