La prima parte dell’articolo dedicato a Dante, l’amore e la letteratura, si chiudeva con un interrogativo: se simbolicamente all’inizio e alla fine della Commedia troviamo l’amor divino che move ogni cosa, cosa succede nel centro del poema? Al centro della Commedia vi è l’uomo e la sua libertà.

La prima parte dell’articolo dedicato a Dante, l’amore e la letteratura, si chiudeva con un interrogativo: se simbolicamente all’inizio e alla fine della Commedia troviamo l’amor divino che move ogni cosa, cosa succede nel centro del poema? Al centro della Commedia vi è l’uomo e la sua libertà.

Il centro è costituito dai canti XVI, XVII e XVIII del Purgatorio, nei quali il poeta affronta il tema della libertà dell’uomo. Al centro del centro poi, in Purg. XVII, Virgilio afferma che «Né creator né creatura mai … fu sanza amore» (vv. 91, 93) ma, proprio in virtù della libertà, l’amore «al mal si torce« e «contra ‘l fattore adovra sua fattura» (vv. 100, 102). Guardando avanti, «con la memoria di chi ha già letto e riletto tante volte il poema» (così Corrado Bologna), si intuisce già il glorioso inizio dell’ultimo canto paradisiaco, la preghiera di san Bernardo:

«Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

tu sé colei che l’umana natura

nobilitasti sì che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 1-6).

Il ragionamento di Virgilio continua in Purg. XVIII:

«Onde, poniam che di necessitate

surga ogne amor che dentro a voi s’accende,

di ritenerlo è in voi la podestade.

La nobile virtù Beatrice intende

per lo libero arbitrio, e però guarda

che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende» (vv. 67-75)

In questi versi il poeta dice: «Ammettiamo pure che ogni amore, buono o cattivo che sia, che è in atto dentro di voi (s’accende), sia nel suo primo sorgere necessario (di necessitate) perché magari causato da condizionamenti esterni; voi avete il potere (podestate) di trattenerlo dentro di voi o di rifiutarlo». Ed ecco confutato l’errore che permeava tutta la letteratura d’amore del tempo di Dante e di cui Francesca era stata exemplum chiarissimo. Ella nel suo discorso fa ricorso per tre volte alla parola “Amor”, incolpando quest’ultimo delle responsabilità delle sue azioni:

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende

prese costui de la bella persona» (Inf. V, vv. 110-1);

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer si forte» (vv. 103-4);

«Amor condusse noi ad una morte» (v. 106).

A ben vedere, l’atteggiamento di Francesca non è poi cosi lontano dai nostri giorni: quante relazioni finiscono perché si lascia affievolire l’amore per la persona amata, per poi permettere che si riaccenda per un’altra? Di solito, scelte del genere vengono giustificano con argomentazioni del tipo: “Ma è l’amore! …Al cuor non si comanda”. Fin a che punto si può “incolpare” Amore, senza avvertire forte le proprie responsabilità morali? L’amore, certo, è desiderio di unirsi a colui/e che piace; ma “il nodo del problema è nel passo successivo, che riguarda la possibilità dell’uomo di dominare razionalmente questo impulso, una volta nato” (A. Chiavacci Leonardi). Le emozioni passano e, raffreddandosi, svaniscono; il sentimento vero si costruisce giorno dopo giorno nella verità della propria anima e nella fedeltà a chi si ama. Questa la tesi di Dante.

Verità e fedeltà: due parole dal significato abusato, ma per le quali Dante ha compiuto il suo viaggio fino alla vetta del Paradiso, lì dove la verità risplenderà nella sua interezza e la fedeltà apparirà come garanzia del suo amore.

(Leggi la prima parte) (Leggi la terza parte)