Può apparire un assurdo: i viaggi si desiderano, si mettono in programma con mesi di anticipo, ci si affatica per essi, eppure, sulla soglia della partenza, inesorabilmente sorgono dentro le domande e i dubbi. Andrà tutto bene? La compagnia sarà quella giusta? E se…? Viaggio-paura. Se pur per un attimo, ogni volta, prima di partire, la paura e l’apprensione ci assalgono. E successo anche a Dante, all’indomito viaggiatore ultraterreno.

Prima di iniziare l’ “altro viaggio” che lo avrebbe condotto a conoscere lo stato delle anime dopo la morte, Dante esprime a Virgilio le sue perplessità circa il suo partire:

«Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi».

L’ “alto passo” richiama l’orgoglioso Ulisse che con identico modulo suggellerà il suo tentativo – fallito perché basato solo sulle proprie forze – di avvicinarsi alla montagna del Purgatorio. Ecco allora il primo “stop” per il viaggiatore: la tentazione di imbarcarsi senza prima aver guardato alle proprie forze.

Davanti alla scelta, Dante è assalito dalla paura: paura di avventurarsi al largo; paura di lasciare le proprie sicurezze; paura di non essere all’altezza di un’impresa mai tentata prima, se non da due illustri personaggi della storia: Enea, fondatore di Roma sceso nell’Ade, e San Paolo, rapito fino al terzo cielo per volere divino. Il dubbio incalza:

«ma io perché venirvi? o chi ‘l concede?

Io non Enea, io non Paulo sono:

me degno a ciò né io né altro ‘l crede.

Per che se del venire io m’abbandono,

temo che la venuta non sia folle» (Inf. II, vv. 31-35).

In questa “battuta drammatica, esclamazione d’impotenza umanissima” (Bruno Basile), per la seconda volta si prospetta l’ombra di Ulisse:

«e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo

sempre acquistando dal lato mancino» (Inf. XXVI vv. 124-6).

È il secondo “stop”: il ricordo di un naufragio. Ma al folle volo di Ulisse si oppone il volo di Dante verso il Paradiso; un volo alto perché derivante dall’accettazione dell’intervento salvifico di Beatrice-fede. Ella infatti è colei

«che all’alto volo ti vestì le piume» (Par. XV, 54);

«che guidò le penne / de le mie ali a così alto volo» (Par. XXV, vv. 49-50).

Viaggio-volo e volare è SALIRE. Già nel primo canto Virgilio, prospettando al suo discepolo l’intervento salvifico di Beatrice, cosi aveva detto:

«…se tu vorrai SALIRE

anima fia a ciò più di me degna:

con lei ti lascerò nel mio partire» (Inf. I, vv. 121-3).

Per salire e poter vedere Dio, dunque, occorre lasciarsi guidare, riconoscere la propria insufficienza e percorrere la via tutta cristiana dell’umiltà; quella via tracciata e percorsa per primo da Cristo, il quale «umiliò se stesso, facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7). Afferma il grande Agostino che Cristo “risuscitò perché spogliò se stesso. In che modo si spogliò? Prendendo la natura che non aveva, senza perdere quella che aveva. Si spogliò, si umiliò. Pur essendo Dio, apparve come uomo. Camminando sulla terra fu disprezzato Colui che ha fatto il cielo. Fu disprezzato come se fosse soltanto uomo, come uno privo di qualsiasi potere. E non solo fu disprezzato ma per di più fu anche crocifisso» (Discorso 92).

Ad imitazione di Cristo, Dante scende fino al male più infimo dell’Inferno, per poter essere poi

«puro e disposto a SALIRE le stelle» (Purg. XXXIII v. 145).