Dopo la condanna dell’amor cortese nell’incontro con i due amanti infernali e il discorso purgatoriale sulla libertà, possiamo ora leggere i versi paradisiaci dedicati al rapporto tra amore e letteratura.

Arrivato alle soglie dell’eterno, il poeta esalta ancora la donna amata, ormai trasfigurata in Dio:

«La bellezza ch ‘io vidi si trasmoda

non pur di là da noi, ma certo io credo

che solo il suo fattor tutta la goda» (Par. XXX, vv. 19-21).

La bellezza di Beatrice oltrepassa la nostra misura (“si trasmoda / non pur di là da noi”) ed è godibile solo da Dio (“solo il suo fattor tutto la goda”), per cui sfugge anche alle forze più alte dell’arte umana. Anche qui la memoria del lettore deve azionarsi per andare avanti e indietro nel testo. Se infatti all’altezza del Purgatorio abbiamo imparato che l’anima può volgersi “contra il suo fattor”, qui è il fattor stesso che gode della bellezza di Beatrice.

Il poeta poi usa alcuni termini dal singolare valore:

«Da questo passo vinto mi concedo

più che già mai da punto di suo tema

soprato fosse comico o tragedo» (Par. XXX, vv. 22-24).

Come un punto vinse Paolo e Francesca (Inf. V, 132), così la bellezza di Beatrice ora vince la capacità artistica di Dante di descriverla. Non a caso, allora, ritorna nelle terzine successive la serie rimica riso:viso già usata dal poeta nel quinto canto dell’Inferno:

«come sole in viso che più trema

così lo rimembrar del dolce riso

la mente mia da me medesmo scema.

Dal primo giorno ch‘i vidi ‘l suo viso

in questa vita, infino a questa vista,

non m’è il seguir al mio cantar preciso;

ma or convien che mio seguir desista

più dietro a sua bellezza, poetando,

come a l’ultimo suo ciascun artista» (Par. XXX, vv. 25-33).

Il momento è alto; Dante deve staccarsi da Beatrice, da quel “viso” che ha cercato di raffigurare “poetando”, iniziando da quel lontano “primo giorno”. Ora che sta per entrare nella pura luce dell’Empireo, è come se gli passasse davanti tutta la vita confluita poi nella sua poesia. Ed è proprio in questo momento solenne che emerge il ricordo ormai lontano di un altro riso e di un altro viso, però scolorato (cfr. Inf. V, 131). È come se Dante ci dicesse: «Attenti! Per arrivare fin qui, e poter gustare ciò di cui ora non sono in grado neanche di esprimere, ho dovuto prima allontanarmi da quella forma di amore sbagliato che era all’origine del peccato di Paolo e Francesca».

Nell’Inferno abbiamo incontrato due amanti con il loro libro – Lancilotto – e il relativo valore poetico legato all’esaltazione dell’amor cortese; ora in Paradiso abbiamo Dante e Beatrice e un libro – la Commedia – dal valore ben più alto. Se per il poeta, infatti, “rimembrare” il “dolce riso è più forte della forza della mente, questa sua impotenza diventa oggetto della nuova poesia.

Con un gioco di parole potremmo dire che l’ineffabilità della poesia diventa poesia dell’ineffabilità, e di questa nuova materia poetica è testimonianza tutta la terza cantica del Paradiso, fino a quella terzina dall’andamento circolare che descrive l’Empireo:

«luce intelletual, piena d’amore;

amor di vero ben, pien di letizia;

letizia che trascende ogne dolzore» (Par. XXX, vv. 40-2).

Luce-amore-letizia possano illuminare e riscaldare ogni giorno della nostra vita. Per questo Dante ha scritto la Commedia; egli parla “di nostra vita”: la mia, la tua, di chiunque legga e si lasci interrogare dai suoi versi.

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