Occorre valutare quanto e come la funzione sociale della proprietà privata nella visione cogente del Costituente sia sopravvissuta nella sua purezza teleologica al meccanismo normativo-integrativo di cui all’art. 117, comma 1, Cost.
Quest’ultimo sancisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato, per quel che qui riguarda (ma in generale anche dalle Regioni), nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento eurounionale, e degli obblighi internazionali. Si fa necessaria una attenta disamina dell’art. 1, Protocollo addizionale n. 1 CEDU, sulla proprietà, e ancor prima, un’analisi delle interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in materia. A prescindere dall’aggancio con i principi del diritto sovranazionale, si potrebbe pervenire al riconoscimento della rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare già attraverso il combinato disposto degli artt. 832 e 827 cod. civ. con gli artt. 13 (sulla libertà personale), 2, 41 e 42 della Costituzione italiana. Il principio garantistico-liberale alla base della norma di cui all’art. 13 Cost., inteso a maglie larghe, rappresenterebbe un indice sistemico idoneo a considerare come ammissibile la dismissione proprietaria da parte di un privato proprietario. D’altronde ciò che non è vietato è consentito, nell’ottica post-medioevale del diritto, e la libertà negativa, dai vincoli autoritativi non specificamente previsti ex lege, diventa anche libertà positiva, di autodeterminare il contenuto della propria sfera giuridico-patrimoniale senza ledere in modo diretto ed immediato la sfera giuridicamente rilevante di altri soggetti.
Come più volte sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale, sono in tensione contemperativa i valori fondamentali della libertà e della solidarietà, entrambi importanti e basici per l’ordinamento giuridico costituzionale. Si propone qui una visione neocostituzionalistica, personologicamente avanzata nella ricerca di un auspicabile equilibrio pragmatico, in cui la persona non risulta ingabbiata nei rigidi meccanismi perpetuativi dello Stato sociale keynesiano, da un lato, ma nemmeno patentata alla lesione degli interessi generali e di quelli collettivi, anzitutto di una serie di collettività sociali bisognose di sussidi a spese dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali. Si vuole così ripensare alla facoltà dismissiva del privato proprietario con l’intento sistemico di rispettare in un’ottica d’equilibrio tra checks and balances tanto il principio della autonomia negoziale consacrato dall’art. 41, comma 1, Cost. e dal sistema eurounionale, quanto il principio della funzione sociale della proprietà privata, di cui all’art. 42 Cost., all’insegna della tutela del bene della vita paesaggistico-ambientale di cui all’art. 9 Cost., e all’insegna dei valori di uguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Un tale ripensamento può compiersi in una riedificazione legislativa e conseguentemente dogmatica del sistema di qualificazione giuridica dei beni. Con riguardo alla problematica della rinunziabilità proprietaria, pertanto, risulta costituzionalmente necessaria la prospettazione di una tesi di ammissibilità condizionata alla previa formulazione legale, tipizzata, della categoria dei beni comuni, ad esempio secondo alcuni punti del modello delineato dalla Commissione ministeriale istituita nel 2007 per dettare una moderna normativa di riforma dell’apparato codicistico di cui agli artt. 810 ss. cod. civ., presieduta dal Chiar.mo Prof. Stefano Rodotà, ora defunto.
Scandendo la qualificazione dei beni come comuni, pubblici e privati, e inserendo in una speciale categoria di beni comuni i beni materiali e immateriali oggetto dell’atto abdicativo di rinunzia, a rigore, si può riconoscere ed entro determinabili limiti garantire la libertà di risolvere la crisi socioeconomica personale, o comunque il disagio soggettivo derivante dalla titolarità di una posizione dominicale, attraverso l’ammissibilità di un atto di rinunzia meramente abdicativa. Tale riformulazione legislativa della teoria dei beni, quale prius logico di ammissibilità della rinunzia proprietaria, risulterebbe idonea a scongiurare il pericolo di una assoluta defunzionalizzazione sociale della proprietà privata, il pericolo di una sproporzionata rifunzionalizzazione eccessivamente libertaria della stessa, nonché il rischio di una decostituzionalizzazione della ratiodell’attività legislativa ordinaria. La suddetta riformulazione sarebbe auspicabile anche per non rendere un mero articolo ornamentale a programmazione esaurita l’art. 43 Cost., il quale tra le varie disposizioni, in un’ottica sociale, statuisce che ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a sevizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Se il legislatore italiano ridefinisse la ripartizione, le caratteristiche e le funzioni dei beni nel senso genericamente descritto sopra, da un lato, e se riformulasse l’art. 827 cod. civ. aggiungendo che i beni vacanti che vengono acquisiti dallo Stato vengono acquisiti a titolo originario, come già si ritiene in dottrina, e che tali beni diventano per ciò solo dei beni collettivi, in particolare dei beni pubblici sociali ad usufruibilità collettiva regolata, la mancata contribuzione tributaria del proprietario rinunziante verrebbe a qualificarsi sostanzialmente come non lesiva delle ragioni di ordine pubblico tributario e di Welfare State. Ciò che verrebbe perso a livello generale con la neutralizzazione del rapporto tra l’ex proprietario e il fisco, a rigore, verrebbe recuperato e compensato dal sistema stesso di acquisizione pubblica a destinazione vincolata, in senso sociale, con connesse organizzazioni strutturali di servizi alla persona e al territorio, da parte dell’ente pubblico territoriale alla collettività generale, indeterminata in alcuni casi, determinabile in altri, come per le mobili categorie collettive specificamente beneficiarie di sussidi in ragione della propria posizione socialmente fragile.
Macroscopicamente e diacronicamente, quindi, si avrebbe anzitutto un atto, per la maggior parte degli studiosi un negozio, di rinunzia della proprietà; poi si avrebbe la qualificabilità di una res immobile come “vacante”, con il connesso effetto legale della acquisizione in favore dello Stato ma non solo, od anche di enti pubblici o comunità di lavoratori o utenti, previo inquadramento dei beni in questione, materiali di tipo immobiliare o anche beni immateriali peculiari, come beni comuni nella disponibilità della collettività generale, e in particolare come beni pubblici sociali, a gestione pubblica o privata o a gestione compartecipata di tipo pubblico-privato, ma senza utili economici per chi li gestisce per via del carattere aperto della fruibilità dei beni comuni pur in questa loro versione tecnicizzata, che qui si propone di ideare attraverso studi analitici e sguardi storiografici.