Dopo Italia USA di volley, Paola Egonu ha annunciato l’addio alla Nazionale a seguito degli insulti social. Non il primo caso di razzismo che molto spesso coinvolge sportivi, a tutte le latitudini. Una battaglia ardua ma che può essere combattuta a partire dalle agenzie educative.
Sabato scorso l’Italvolley femminile ha battuto la nazionale americana nella finale valevole per il terzo e quarto posto del Mondiale di Olanda e Polonia, vinto poi dalla fortissima Serbia che ha schiantato per 3 a 0 la compagine brasiliana. A tener banco, più che la vittoria delle Azzurre, sono state le dichiarazioni di Paolo Egonu, una delle migliori pallavoliste in circolazione, attualmente in forza al VakifBank, che a fine gara ha annunciato l’addio alla Nazionale, lasciando di stucco tifosi azzurri e addetti al lavoro.
“È stancante. Mi hanno chiesto perché sono italiana. Questa è l’ultima partita che faccio con la Nazionale”, ha detto l’atleta di Cittadella a fine partita, aggiungendo: “Per ora sono felice di vivere questo Mondiale, poi si vedrà. Sono fiera e sono grata ad avere le mie compagne che mi sopportano”. A mente fredda Egonu e il suo procuratore hanno smorzato i toni della polemica, che intanto aveva spaccato gli schermi e creato clamore mediatico. La pallavolista veneta ha affermato che a gennaio farà sapere sulla sua intenzione di far parte del gruppo della nazionale italiana di pallavolo perché c’è ancora molto da fare, e si spera, da vincere. A quanto pare, gli insulti e le offese razziste sarebbero arrivati dai social, da parte di tifosi che, oltre ad averla colpevolizzata per la sconfitta contro il Brasile, hanno infierito ferocemente e vilmente.
Non è la prima volta che qualche sportivo resta turbato e avvilito per gli insulti razzisti, che purtroppo sono una costante di idiozia e ignoranza. A rendere ancor più viscida la querelle è il fatto che Paola Egonu, nata a Cittadella il 18 dicembre 1998, sia italiana a tutti gli effetti ed è ben noto il suo forte sentimento di italianità. Egonu non è purtroppo nuova alle polemiche, che si era già attirata allorquando era stata scelta dal CIO come portabandiera olimpica. In Italia si fatica a superare quello che è un limite alla parità, e non solo nella lotta al razzismo. Paesi come Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi da tempo hanno attuato politiche di integrazione, forse perché hanno un retaggio coloniale, ma lo stesso si potrebbe dire della Germania, dove vivono ben quattro milioni di turchi e tanti altri migranti, e che da decenni ha altrettanto messo in atto un medesimo percorso. Lo sport, in questi termini, diviene una grande forza di inclusione, un capitale umano che mette davvero in pratica i principi di dignità sociale e uguaglianza. Non bisogna pensare che gli altri Paesi siano immuni da questa piaga e che non avvengano episodi di razzismo. Proprio in Germania colpì la polemica che suscitarono le esternazioni del movimento xenofobo Pegida che rimase “sdegnato” per l’iniziativa di una nota azienda dolciaria di sostituire il volto di un bambino biondo e germanico con quelli dei calciatori Gundogan e Boateng da piccoli, un turco e un ghanese. Tante federazioni sportive hanno attivato a livello europeo campagne e programmi contro il razzismo che a tutte le latitudini colpisce in nome di un’ignoranza che non ha confini, come ad esempio fa la UEFA con gli spot UEFA says no to racism. Di strada ce n’è ancora da fare, soprattutto in Italia che non è, e per fortuna aggiungerei, un ex Stato coloniale e che grazie alla globalizzazione e alla caduta del comunismo ha conosciuto ondate di arrivi, per i quali ha dovuto impostare politiche volte all’integrazione.
La considerazione che si ha del nostro Paese è quella di un popolo accogliente e aperto a tutti, che combatte sui banchi del Parlamento europeo e che richiama tutti gli altri membri agli impegni nei confronti dei migranti. Ma un conto è accogliere, un altro è integrare. L’integrazione non è processo facile da attuare, sia chiaro, comporta una cultura del rispetto dell’altro che va educata e coltivata. Molti stranieri o italiani figli di immigrati stranieri alle volte fanno fatica a farsi accettare da quelli che molto volgarmente potremmo definire italiani, i quali non riescono a operare l’integrazione a partire dalle relazioni umane. E allora alcuni si estraniano, si allontanano perché subiscono anche delle discriminazioni a motivo della razza o della religione. È una questione di educazione alla cittadinanza che dovrebbe partire dalle scuole e dalle famiglie. Per esperienza, queste agenzie educative fanno il proprio, ma spesso resta tutto a livello teorico e il pericolo si aggira attorno ad una zona d’ombra che viene colmata da quel calderone senza regole dei social. Sarebbe un peccato mortale generalizzare, ma forse bisognerebbe attuare un cambio di passo decisivo che possiamo apprendere dalla nostra legge fondamentale che alcuni ritengono vetusta e indietro coi tempi (FdI), quelle stesse fazioni politiche che hanno creato non pochi problemi agli stranieri qui presenti, già con il decreto Salvini che ha complicato, ad esempio, le procedure per l’acquisizione della cittadinanza. Lo ius scholae potrebbe imprimere un cambio di rotta importante.
Può sembrare banale richiamare la Costituzione e il suo articolo 3 nel quale si esplicita la dignità sociale e l’uguaglianza di fronte davanti alla legge, senza distinzione di sesso, lingua, razza, religione, opinione politica, condizioni personali e sociali. Applicare appieno tali principi costituzionali, che nella loro contemporaneità hanno la loro forza, è un diritto ma anche un dovere che non può restare sulla carta delle intenzioni ma che deve coinvolgere tutta la nostra bella e variegata società civile perché tutti siamo italiani.