Le crisi umanitarie di 20 anni fa: ispiratrici di militanze pacifiste ed umaniste

Chi si è dimenticato di quell’11 settembre di ormai 20 anni fa? Nessuno, immagino, e spero.

Correva l’anno 2001. Avevo 11 anni, ero ad un mese esatto dal mio dodicesimo compleanno e le immagini del micidiale e terribile attentato che le televisioni riportavano più e più volte le seguivo come si segue qualcosa per cui occorre solo fermarsi, stizzosamente. Ricordo che ero in piedi, dal lato destro avevo il televisore e dal lato sinistro mi appoggiavo a scatti con il mio braccio sinistro sulle mattonelle bianche della cucina della casa di nonna in Puglia, nel punto in cui si riusciva a vedere bene il televisore. In quel punto c’era una mattonella bianca con sopra l’effige di Paolo VI. Poco più in là c’era una mattonella con l’immagine di monumenti romani.

Ognuno ha i suoi ricordi, di quell’11 settembre.

Dopo quella data, ricordo, ci facemmo coinvolgere in tanti (ma in realtà in pochi, se si guarda ad ogni singola realtà scolastica e territoriale) – tra i sensibili ai diritti umani – sul fronte nonviolento delle piazze pacifiste. Pensavo che come l’euro avrebbe garantito più solidità e trasparenza ai mercati nello spazio comune europeo di negoziazioni e transazioni commerciali, anche la sicurezza sarebbe stata altissima nella nostra Europa, ancora più alta, dopo quei fatti.

Un paio d’anni dopo quell’11 settembre ero già sceso in piazza nei cori per la pace, nell’onda del movimento pacifista che arrivava un po’ ovunque, perché le politiche estere statunitensi pre-obamiane di allora apparivano poco attente alla cura dei civili innocenti, in Iraq e non solo. Giustamente gli Stati Uniti volevano far vedere la propria forza affinché non succedesse più ciò ch’era accaduto in quell’11 settembre. Tuttavia dalle cronache dei giornali non molto maggioritari arrivavano notizie di morti civili innocenti. E ciò mi provocava malumori. Il prezzo di quella prova di forza in funzione “difensiva” risultava quindi antitetica ai valori internazionali umanitari e di sviluppo integrabile.

Alcuni degli studiosi storici già in quel tempo dicevano che la guerra in Iraq fosse stata un pretesto per altro, ed in effetti la missione statunitense in Iraq ha dei risvolti amari che superano l’ordinaria tattica di mantenimento degli equilibri securitari internazionali. Non si doveva fare, non così.

Sull’Afghanistan, invece, c’è un discorso diverso da fare, nel pragmatismo delle considerazioni su scala internazionale che non possono mai partire da punti di vista ideologici per giungere a punti di vista per forza di cose ideologici.

Quando si affrontano questi argomenti l’ideologia, come quella pacifista, può inserirsi ed anzi deve inserirsi fra le varie considerazioni, ma deve entrare nel momento in cui la ricostruzione dei fatti e dei moventi statuali ad organizzare missioni militari di  peace  keeping  sono ufficialmente manifestati, in conferenze stampa o comunque a mezzo media, per noi cittadini comuni. Altrimenti si cadrebbe in apriorismi partitologici o in unidirezionalismi valoriali. Lo dico persino io che nel 2005, non contento delle campanelle già esistenti a sinistra o tra i giovani comunisti e cattocomunisti, fondai l’attivissimo movimento culturale e sociale MixArt Per La Pace nel territorio della provincia brindisina, un piccolo movimento pacifista di studenti liceali e giovani lavoratori sensibili alla causa della liberazione degli individui nelle proprie autenticità e diversità, attraverso l’arte in società, nonché per i diritti civili, sociali, ambientali, e di lotta al bullismo, al neofascismo, al razzismo.  La pace, manifestabile anche attraverso le correnti di un pacifismo pragmatico, è sempre stata un mio valore. Il pacifismo può entrare nelle valutazioni politiche e nelle scelte politiche, una volta che fatti, moventi ed esigenze sono sul tavolo. Come nel processo, prima si ha l’attività di acquisizione e poi quella di valutazione delle prove attraverso gli ausili (in quel caso non ideologici ma) analitici.

In Afghanistan le vocazioni talebanocratiche e gli oscurantismi anti-progressisti che mortificano le donne ed il progresso delle libertà individuali, sono una questione vecchia, di cui l’Occidente ha dovuto farsi carico, anzitutto per la propria sicurezza e per la sicurezza della propria evoluzione liberalcostituzionale. L’Afghanistan poteva diventare una culla di terroristi, e l’Occidente questo non poteva permetterselo, per i motivi sopra menzionati. Sono passati venti anni dagli interventi militari cc.dd. di pace e siamo di fronte alla nota crisi umanitaria per la realizzazione dei sogni talebanocratici. Cosa farà l’Occidente liberale nei prossimi mesi?

Sull’Afghanistan oggi c’è lo sgomento dei commentatori internazionali, perché con la presa del potere di fatto da parte della talebanocrazia, e di fronte ad una profondissima nonché lacerante emergenza umanitaria internazionale conseguentemente avviatasi, da più parti si sta dicendo che l’occidentalismo ha fallito, che venti anni di missioni “militari di pace” non sono servite, che ogni sforzo ed ogni ingente sacrificio in termini di vite umane dei nostri militari caduti non sono serviti a niente. In realtà c’è chi riesce a vedere un bicchiere mezzo pieno, poiché tra le donne che stiamo accogliendo in Italia durante l’emergenza 2021 ci sono anche alcune afghane cicliste, e questa cosa che per noi appare scontata lì, in quella terra di dolori e complessità, non lo è. Ci sono alcune afghane che comunque ringraziano le forze liberaloccidentali per il supporto garantito negli scorsi venti anni, pur tra contraddizioni e zone d’ombra.

La missione militare di pace degli USA in Afghanistan si pone in termini diversi rispetto alla guerra in Iraq. Malgrado il movente principale per gli USA sia stato sempre quello di tutelare in modo attivo la propria sicurezza federale, la vigilanza sul non avanzamento della talebanocrazia durante gli scorsi venti anni c’è stata, e in quei venti anni a qualcosa sarà pur servita. Sicuramente ci sono stati degli errori in questi venti anni, poiché quelle missioni militari di pace a cui anche l’Italia ha preso parte hanno prodotto dei morti, non solo tra i miliziani talebani sulle montagne e tra i terroristi di Al Qaeda e dell’Isis nei loro giacigli, ma anche tra gli innocenti civili. E quando si tratta di civili innocenti, si sa, le cose cambiano. L’amarezza bussa alle porte delle coscienze degli Stati.

Veniamo a questi ultimissimi giorni afghani. Il recentissimo attentato dell’Isis a Kabul con oltre 170 morti ci ricorda quanto sia complessa la realtà afghana, e quanto sia difficile inserirvi elementi di speranza liberalcostituenti, soprattutto dall’esterno. Tra i talebani stessi ci sono diverse aree ideologiche, alcune delle quali – le più radicali – vengono lasciate meno ufficiali proprio affinché attraverso il loro operato si riesca a far trapelare il terrore in società, sempre, anche durante la fase di poltronizzazione del governo di fatto talebanocratico. L’Isis, cosa diversa dalla talebanocrazia attuale, si sente non amica del governo di fatto talebano da un lato e nemica assoluta degli USA e dell’occidentalismo in generale. A pagarne le conseguenze sono sempre i civili afghani, e principalmente le donne ed i bambini.

Questo è tempo in cui avere come obiettivo valoriale la pace, come sempre, ma questo è tempo in cui per costruire corridoi di sicurezza – all’interno della quale soltanto può svilupparsi la pace – occorrerebbe non arrendersi alla talebanocrazia, nemmeno a quella ufficiale, e non arrendersi nella lotta all’Isis. I movimenti politici poi hanno una grande responsabilità per il futuro, giacché risiede in essi la speranza per un dialogo militante di ampio respiro, in una possibile Internazionale demolibertaria e progressista che coinvolga le correnti laico-liberali dell’Afghanistan. I liberali in Europa sono riformisti, oggi, in Afghanistan sono rivoluzionari, oggi. Stesse idee, su per giù, che per affermarsi necessitano d’impostazioni metodologiche diverse, a seconda del tempo e dello spazio geopolitico e geo-costituzionale in cui ci si batte per le libertà.

La pace passa attraverso la sicurezza, attraverso i processi di promozione diplomatico-istituzionale e politico-militante della democrazia liberale. Questi processi sono cosa diversa rispetto alla c.d. esportazione militare della pace, che è un qualcosa che non può esistere realisticamente, dato che la democratizzazione civile ed istituzionale rappresenta un processo complesso fatto di percorsi lenti, i quali non sono mai una volta per tutte raggiungibili.

La pace, da pacifisti pragmatici invocabile, è una pace che passa attraverso l’istituzione di un esercito europeo, simil-federale (il “simil” è d’obbligo dato che non esistono gli Stati Uniti d’Europa). Un esercito europeo non farebbe gli interessi dei nazionalismi, necessariamente, dato che sarebbe educato ed addestrato all’interno di logiche a-nazionaliste, e quindi europeiste, più vicine e più forti nel dialogo con le altre realtà continentali, oltre che con l’ONU. Ricordiamoci che i processi di pace potrebbero passare anche attraverso il consolidamento della Corte Penale Internazionale, ma sul quest’ultimo fronte istituzionale occorrerà trovare e provare i fatti, e capire come far evolvere il sistema sanzionatorio della Corte anzidetta attraverso l’effettivizzazione di quel sistema a livello esecutivo.

Occorre dialogare con il governo di fatto talebanocratico, ma non riconoscerlo al pari degli altri governi a livello internazionale. Un riconoscimento di diritto internazionale potrebbe arrivare soltanto qualora vi fossero condizioni per poter dire che quei talebani-di-governo sono sostanzialmente dei non-talebani; cosa che attualmente non è nemmeno all’orizzonte.

Chi sono i pacifisti? I pacifisti sono delle persone attive che hanno a cuore il mantenimento e lo sviluppo della cultura dei diritti umani nel mondo, con l’obiettivo mai eterno della pace umana. I pacifismi senza una cultura costituzionale ed umanitaria sugli Stati di diritto sono come delle entità astratte, fuori dai situazionismi da gestire, anche a livello emergenziale.

Occorre mixare le occorrenze, le tendenze, le sensibilità e le necessità securitarie, per poi amalgamarle in un tessuto politico che voglia la pace senza soltanto professarla. Se il nome della ONG fondata tanti anni fa da Emma Bonino ci ricorda che “Non C’è Pace Senza Giustizia-No Peace Without Justice”, oggi potrebbe aggiungersi, riprendendo a tratti le ottiche del movimento umanista internazionale fondato in America latina da Silo negli anni ’60 del Novecento, che bisogna “umanizzare la Terra”.

Se non c’è pace senza giustizia, occorre perseguire la giustizia, e per perseguire la giustizia occorre promuovere un processo di umanizzazione della Terra, partendo dalla cultura militante, con i piedi per terra.

Ricordo che nel 2010 nella sede della Comunità per lo Sviluppo Umano (allora organo del movimento umanista internazionale in Italia, insieme alla Onlus pro-Africa Reciprocità), che frequentavo a via Bezzecca a Roma, c’erano delle copie di “Umanizzare la Terra”, uno dei libri di Silo che proponevamo per le strade della capitale durante i contatti stradali, a cui anche io in diverse occasioni ho preso parte tra la fine del 2009 e il 2010.

Per umanizzare la Terra non servono le bombe sui civili nelle terre già martoriate da rischi quotidiani d’attentati terroristici, non serve sparare sulle aree dei miliziani quando potrebbero esservi tanti ostaggi civili all’interno, però non serve nemmeno essere anti-militaristi di maniera. I militari occidentali hanno aiutato molti civili in quelle terre afghane martoriate, e lo hanno fatto sognando una pace che passa attraverso la sicurezza.

Accanto alla divisa dei militari occidentali che hanno teso la mano ai civili inerti e terrorizzati a Kabul, sostanzialmente, è come se sventolasse un arcobaleno. Quello stesso complesso ed eterogeneo arcobaleno che sventolava nelle piazze pacifiste, mixate, come mixata è la tavolozza dell’arte di vivere quest’esistenza in società, tra spazi e tempi divergenti.

Se le crisi umanitarie di venti anni fa mi hanno ispirato prima un pacifismo e poi – più in senso stretto – un umanesimo universalista, tra militanze, fondazioni di gruppi, adesioni a gruppi, oggi di fronte alle narrative sulla crisi attuale in Afghanistan a cosa mi ispirerò, se sarò ancora in grado di farlo? Ognuno di noi con la propria individualità, al di là delle logiche organiciste dei gruppi, al di là delle strutture, al di là delle retoriche, potrebbe ricercare una visione militante da lanciare e lasciare in eredità, intorno a sé, con le cose che fa, mentre le fa.

L’unica certezza è che mi ritrovo ancora nudo, vestito di una carne che rabbrividisce davanti alle violenze ed alle retrograde minacce anti-umane dei terrorismi nel mondo. Come venti anni fa, con più consapevolezze ed esperienze. Più che militanti ed attivisti  full  time,  oggi potremmo riscoprirci individui liberi che coltivano le proprie coscienze insieme agli altri, individui demolibertari, responsabilisti, appassionati di evoluzionismo costituzionale e di diritti in movimento.

Non c’è pace senza libertà fondamentali, nelle vite delle persone pacifiche, in ogni dove.


FontePhoto by Ged Lawson on Unsplash
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Nato l’11.10.1989, giurista, scrittore, poeta e attivista politico “liberalfree”. Vive a Roma, dove opera nel settore della ricerca accademica di storia giuridica. Maturità classica conseguita in Puglia nel 2008, laurea quinquennale in Giurisprudenza conseguita a Roma nell’A.A. 2012/13, e in seguito master di specializzazione forense e corsi di formazione avanzata in varie città, abilitazione alla professione di avvocato nella sessione 2015; cultorato della materia Costituzionalismo e integrazione europea; attività di dottorato di ricerca con borsa in Discipline giuridiche storico-filosofiche, sovranazionali, internazionali e comparate presso l’Università Roma Tre. Autore di varie monografie e saggi di cultura giuridica, conduce interviste e pubblica articoli di cultura politica e sociale su riviste, periodici, giornali. C’è un filo che unisce le sue battaglie civiche per la garanzia e l’evoluzione dei diritti, le sue poesie, le sue prose artistiche e politiche, il suo pensiero sociospirituale progressista, i suoi saggi di diritto vigentista e storico-teorico: l’amore veemente per l’umanità nel suo divenire storico e dialettico.

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