L’estate non è solo il tempo del mare e del sole, ma anche degli esami, dei test d’ingresso, delle ansie, delle paure e dei numeri.

Dare i numeri è sinonimo di pazzia. Ricevere numeri è causa di frustrazione.

Un numero per valutarti, una cifra per stabilire quanto conti, un numero per etichettare, per definire, per cercare di identificare l’incredibile varietà, la diversità, la personalità  e tutto ciò che porta con sé. Pensateci, in letteratura non esiste una definizione univoca di “personalità”, ci ha provato la letteratura, la biologia, la psicologia.

Un 15 alla terza prova, un 30 ad un esame, un 110 alla laurea.

Test e crocette, posti in graduatoria, punti persi ad un esame; il 299esimo o il 301esimo  su 300 posti disponibili, il 18 nonostante i mesi di studio,  la tua media ponderata per calcolare il voto di laurea. Fortuna, casualità, competenza e abilità si perdono in questa confusione di quantità da accumulare, di voti da prendere, di esperienze da mettere in curriculum e di denaro da tenere sul conto. Chiedete in questo periodo ad un qualsiasi studente come sta procedendo la sua estate: inevitabilmente parlerà di numeri.

Mi mancano tre esami, devo provare tre test d’ingresso, mi mancano ancora 300 ore di tirocinio prima di laurearmi: queste e molte altre ansie strette tra cifre, tempi, risultati, valori. Tutti i numeri che in questo periodo si accavallano nei pensieri degli studenti, tra esami di maturità, lauree e sessioni.

Il Pil di un Paese è un numero. Lo spread è un numero. Il tuo Isee è un numero.

La sociologia parla di modernità liquida, ma questa liquidità si è trasformata in una società semplificatoria, dove il numero è l’etichetta necessaria a mettere dentro una categoria.

Ci siamo persi il passaggio in cui la complessità e la sua bellezza si sono trasformati in un numero che classifica, in una graduatoria tra chi è migliore (ma migliore di chi poi?), in quantità da accumulare che cercano di imitare ciò che sembrerebbe necessario ad avere un posto nel mondo, nel proprio mondo. I numeri uccidono la straordinaria varietà del genere umano. Un numero sostituiva il nome ad Auschwitz, un numero è il PIL del Paese che cerca di descrivere la ricchezza della gente, un numero al massimo è l’ordine da seguire in fila alla posta (ecco, lì servirebbe seguire i numeri), un numero sono i voti che ha ottenuto Donald Trump.

Le cifre dicono poco se non contestualizzate. Sembra scontato, ma ora come ora non lo è più: non è quel 75 che avrai alla maturità che potrà veramente descrivere ciò che hai fatto in cinque anni, ma non sarà neanche il tuo 110 a dire quanto vali. E allora,  l’errore forse non della scuola, ma della società, di questa società, della produzione, del risultato, dell’accumulo e del successo è stato quello di averci fatto attaccare al numero della graduatoria, del voto, delle valutazioni, con la paura di non essere abbastanza in alto, abbastanza adeguati a uno standard, di non essere pronti a rimanere in  gioco. Forse l’arte che è andata completamente perduta è quella del fallimento: non ci concediamo più di riuscire a perdere, di sbagliare, di anche per un attimo fallire. La performarce deve essere sempre massima, dobbiamo solo produrre il meglio, e avere voti altissimi, e laurearci in tempo, e fare stage, e allungare il curriculum… le nostre parole sono piene di quantità da aggiungere.

Nel lessico comune l’ansia è la parola che ritorna ciclicamente tra le parole di ogni giorno. Siamo una delle generazioni che fa più uso di ansiolitici e psicofarmaci; nei college americani, dove l’American Dream diventa sempre più religione che indice di successo, gli studenti fanno uso di droghe per migliorare le performance scolastiche. In un documentario Netflix ( “The Adderal Diaries”) viene proprio raccontata la preoccupante tendenza degli studenti americani ad assumere Adderall (un farmaco per gli ADHD) per mantenere alta l’attenzione e poter dare più esami con voti più alti; recentemente, sempre la piattaforma di streaming americana ha rilasciato un film che tutti i ragazzi d’età compresa tra i 14 e 30 anni dovrebbero guardare: “Cinque giorni fuori”, tratto dal libro It’s a kind of funny story , è la storia effettivamente simpatica di un adolescente che vomita per lo stress, ha tendenze suicide, disegna continuamente “mappe” mentali del suo confusissimo  cervello, si sente inferiore rispetto allo standard che il modello di scuola competitiva in cui vive gli propone continuamente, tra  test di ammissione da superare, aspettative genitoriali e senso di fallimento continuo.

Quella dell’Homo economicus di baumiana memoria è una facile critica da fare, ma anche è  una generazione disinteressata alla politica e agli ideali perchè necessariamente occupata ad avere voti alti, a trovare lavori part-time, a procurarsi esperienze lavorative da esibire nel curriculum. Proiettati verso un futuro auspicato, viviamo nell’ansia un presente che sfugge tra numeri che cercano di etichettarci come studenti bravi o persone fallite.

C’è un libro che dovrebbero far leggere tra i banchi di scuola: autobiografia  di uno studente che non è bravo ma cerca di applicarsi, disperazione dei genitori che ormai lo credono stupido, esemplificazione della disfatta scolastica che molti vivono. Diario di scuola è la storia, appunto autobiografica, di Daniel Pennac, oggi uno dei migliori romanzieri e scrittori contemporanei che è  insegnante oltre che autore di successo. La storia è la sua storia di studente “asino”, con tiene la testa sui libri ma senza i risultati auspicati, tra la disperazione dei genitori e dei fratelli, e di suo padre che a un certo punto sconsolato gli dice “troverai la tua strada”.

Ecco, nel libro Daniel Pennac scrive così: “statisticamente tutto si spiega, personalmente tutto si complica”. Le cifre cercano di rappresentare la complessità irriducibile dell’essere umano, dello studente, della Persona nella sua interezza, frantumandola in tante piccole cifre, in tanti piccoli traguardi, in quello che produce, ottiene, realizza. Ma non siamo forse anni di crescita, di arricchimento, di errori e vittorie? Siamo veramente un posto in graduatoria, il voto alla maturità, la risposta sbagliata? Siamo veramente così semplificabili?


2 COMMENTI

  1. Wao! Quant’è vero! Diceva l’attore teatrale Carmelo Bene: bisogna imparare a disimparare.
    Siamo così dannatamente schiavi dell’idea di successo che non appena ci fermiamo a riflettere sul senso di questo grande inganno, il giogo messoci al collo inizia a stringersi e ci induce ad obbedire a questo sistema di numeri e, per certi versi, a provarne pure piacere.
    Questa è una grande questione, complessa e perversa, che andrebbe sradicata dal nostro modus vivendi. Ma come? Chi ha le chiavi per liberarci dal giogo.
    Complimenti Erica per aver tirato fuori un ampio spazio di riflessione.

  2. E’ vero, non siamo numeri. I numeri dovrebbero essere un mezzo e non un fine. Quando si assolutizzano forse possono confondere, destabilizzare, creare paure, ma menomale che ci sono. Possiamo immaginare una società senza numeri? Anche nella scuola si è tentato di eliminarli nella valutazione dello studente sostituendoli con un giudizio di massima: insufficiente, sufficiente, buono, discreto, ottimo, lodevole… Poi si è capito che anche il giudizio partiva sempre da lì, dai numeri convertiti in parole e si è ritornati ad usare i numeri.
    Non bisogna aver paura dei numeri. Bisogna aver paura e/o preoccuparsi di chi usa i numeri macchiavellicamente dimenticandosi delle persone…che non sono numeri.
    I numeri da soli non sono nulla e non spiegano nulla.
    Complimenti all’autrice dell’articolo per aver affrontato un tema così complesso e suggerito spunti di riflessione.

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