
«In nihil ab nihilo quam cito recidimus»
Ogni tanto sua sorella aveva bisogno di fermarsi, restare indietro, lasciare andare, infischiarsene. Aveva bisogno di riposare, ignorare, perdere, mollare.
Ogni tanto mostrava la reale necessità di non fare, o di fare niente: non riusciva a riflettere, pensare, ascoltare, leggere, guardare, scrivere. Ma per un motivo facile: non ne aveva voglia.
Una volta aveva tenuto a decantare per molto tempo un libro sul comodino: aveva tessuto le lodi dell’incipit avvincente, le era piaciuto un sacco, però l’aveva lasciato lì a prendere polvere non si sa per quanti mesi. La madre lo spolverava, le chiedeva di metterlo almeno a posto nella libreria e lei si rifiutava di fare anche quello: forse tenerlo a vista era un promemoria per l’incompiuto di chi sceglieva proprio lucidamente di restare, per un po’, del tutto improduttiva.
Lui non aveva mai più conosciuto nessuno che avesse quella caratteristica; sua sorella in effetti era piuttosto strana: diceva che quello era il suo modo per ricaricarsi e quando le cose stavano così, tutto le scivolava addosso, il tempo si fluidificava e nulla la intaccava.
Le invidiava molto questa dote e lei, naturalmente, lo sapeva; quando il fratello provava a dirglielo gli sorrideva, passandogli il braccio intorno alle spalle e poi la mano sopra la testa. Gli scompigliava i capelli e diceva: “Papik, certe cose si imparano, non ci si nasce… quando sarai saturo lo saprai fare” ed ogni volta gli faceva leggere questa poesia di Neruda perché era così, diceva, che ci si doveva sentire per poter imparare:
Ora, lasciatemi in pace.
Ora, abituatevi alla mia assenza.
Io chiuderò gli occhi
e dirò solo cinque cose,
cinque radici preferite.
Una è l’amore senza fine.
La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.
La quinta sono i tuoi occhi.
Non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io tramuto la primavera
affinché tu continui a guardarmi.
Amici, questo è quanto voglio.
È quasi nulla ed è quasi tutto.
Ora se volete andatevene.
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellarmi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
succede che sto per vivere.
Mai sentito così sonoro,
mai avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.
(Pablo Neruda)