UNA SILENTE RIFORMA DELLA COSTITUZIONE

Quanto accaduto negli ultimi giorni nella politica nazionale è sotto gli occhi di tutti.

L’incapacità fattuale di individuare una figura condivisa da tutta la maggioranza che tutt’ora sostiene il Governo ed eleggere un Presidente della Repubblica, ha risolutamente portato verso una nuova parentesi di eccezionalità nella prassi politico-costituzionale, vale a dire la rielezione dell’uscente Sergio Mattarella.

Da molte parti si obietta, anche aspramente, che l’incapacità materiale di sintesi politica dimostrata coincida, in tutto o in parte, con un’incapacità politica vera e propria dei rappresentanti democraticamente eletti in Parlamento, cui aggiungere delegati regionali e leader di partito, questi ultimi veri responsabili proprio delle fallite trattative.

La questione da porsi, invero, potrebbe essere un po’ più complessa di quanto prospettato, ovvero un semplice smarrimento – ancorché sistemico – della classe dirigente italiana dagli anni duemila in poi: al contrario, potrebbe inerire profili costituzionali veri e propri, mostrandosi un vulnus in questo appuntamento elettorale.

Il momento da cui si potrebbe partire per focalizzare la determinata questione risale al primo vero evento eccezionale degli ultimi vent’anni di storia repubblicana, la crisi del 2008, che portò a conseguenze tali da costringere l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ad adottare strumenti sufficientemente adatti affinché si riuscisse a condurre la nazione fuori dalla imperversante recessione economica. Tale era l’occasione di eccezionalità che portò al varo di un governo cd. ‘tecnico’, un ‘governo del Presidente’, con a capo il sen. Mario Monti.

Il meccanismo del ‘governo del Presidente’, un esecutivo che veda la partecipazione e l’approvazione, interna od esterna, della maggior parte delle forze politiche presenti in Parlamento, in costanza di un momento storico contrassegnato da particolare eccezionalità sotto vari aspetti, non era già allora certamente nuovo.

V’è da evidenziare, però, che per tutto questo scorso decennio, su sette esecutivi formati, ben quattro sono stati avallati mediante una scelta presidenziale, oltre ad uno – segnatamente il primo Governo Conte – marcato dal veto esplicito del Presidente Mattarella alla assegnazione di un dicastero di peso ad un antieuropeista come il prof. Savona, con annessa situazione conflittuale abilmente ricomposta mediante l’orpello della creazione di un esecutivo, per l’appunto, “del Presidente” a guida del prof. Cottarelli, che mantenesse la stabilità sui mercati.

Di contro, per i restanti due esecutivi che possano vantare una matrice tout court politica, la stessa rimane comunque ben celata, non disincagliandosi questi mai del tutto da una eccezionalità sottesa nel proprio grembo.

Da un punto di vista costituzionale la legittimazione dell’esecutivo italiano deriva da un rapporto fiduciario con il Parlamento, ai sensi dell’art. 94 della nostra Costituzione, da cui il primo  trarrebbe altresì legittimazione popolare di secondo grado.

Orbene, il ricorso costante al meccanismo del ‘governo del Presidente’, è la definitiva delegittimazione ben in vista del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento: pur se formalmente la fiducia rimane strumento in mano a quest’ultimo, il Presidente della Repubblica si pone in una posizione di garanzia, quasi fideiussoria, della legittimità dell’esecutivo agli occhi dei parlamentari. De facto, per le ragioni su esposte, si esautora ed interrompe il gioco dei pesi e contrappesi delineato nella Carta Costituzionale: togliere la fiducia all’esecutivo ‘del Presidente’, infatti, significherebbe proprio delegittimare il proprio creatore dal ruolo apicale di garanzia e prestigio, quel Presidente fideiussore della buona pratica di governo adottata.

Ed è questo, dunque, il punto ove il ‘re nudo’ della scorsa elezione si è mostrato in tutta la propria fragilità, e che probabilmente – si interpreta – lo stesso Presidente uscente temeva, non già per ‘godersi la pensione’, come qualcuno commenta, bensì proprio per evitare che venisse a galla l’anomalia del sistema: la mancanza di vera e propria legittimazione fiduciaria che il Governo presieduto da Mario Draghi avrebbe subito in caso di uscita di scena del Presidente Sergio Mattarella.

Solo il medesimo Capo dello Stato avrebbe potuto garantire, dunque, quel ‘governo del Presidente’, che altrimenti non avrebbe avuto alcun tipo di fideiussione agli occhi di una maggioranza abbarbicata su un sottile filo di lana.

Si assiste definitivamente ad una svolta gaullista già molte volte esplorata, con o senza troppa coscienza, metamorfosi automatica dell’architettura costituzionale, non più rispondente a logiche parlamentari, bensì presidenziali tout court.

O meglio, si passa da un sistema parlamentare di stampo britannico, come nelle intenzioni dei Padri Costituenti, ad un “semi-presidenzialismo” pratico.

Se, infatti, inizialmente era stato mutilato il rapporto fiduciario – sussistente nella stessa monarchia inglese – tra Capo dello Stato ed Esecutivo, al fine di garantire concretamente che non si scivolasse nuovamente verso un personalismo da uomo forte di mussoliniana memoria, e perciò era stata affidata al Parlamento in seduta comune la prerogativa di eleggere il capo dello Stato, mediante un gioco di pesi e contrappesi che effettivamente circoscrivesse i punti di accumulo del potere e del prestigio personale, allo stato dell’arte è inevitabile che tale meccanismo venga meno, in ossequio ai ricorrenti richiami a stabilità e governabilità che attanagliano le istituzioni ed i mercati internazionali. Ed il ricorso al ‘governo del Presidente’, il ribaltamento degli oneri fiduciari, risulta essere l’unico metodo concreto per uscire dai naturali impasse che la discussione politica reca con sé.

Quello che appare come l’ennesimo passaggio a vuoto della politica italiana, dunque, non sarebbe altro che un insieme magmatico di fattori interni ed esterni a se stessa, che inevitabilmente ha introdotto una diversa forma di governo non più parlamentare, bensì semi-presidenziale, se non addirittura presidenziale.

Ma la vocazione maggioritaria sembra già essere irreversibile tra le stesse forze politiche, ponendo sotto i riflettori i personalismi ed il carisma dei personaggi che ogni giorno calcano le scene dei media, per un logico – rebus sic stantibus – “stato di eccezione elettorale perenne”, parafrasando Walter Benjamin. Il tutto accade pur evidenziandosi verosimili istinti di frammentazione del voto, tipici di una richiesta di sistema elettorale proporzionale nel ventre molle della sovranità popolare, da cui discende la necessità per i partiti di fossilizzare la propria azione nel delicato gioco delle coalizioni: una specie di triumvirato, il quale, stante la difformità di flusso di informazioni circolanti nella Roma Repubblicana e nell’epoca contemporanea, sarebbe oggi durato meno della appena trascorsa elezione.

Da ultimo, ma non di certo per minore importanza, v’è la crescente richiesta di autonomia delle regioni e delle comunità locali. Ciò avviene proprio in concomitanza di momenti che hanno richiesto per le stesse una gestione capillare della situazione pandemica, dovendo rimanere sempre attenti ad esigenze specifiche e dinamiche del territorio, pur soffrendo, al contempo, la più importante esautorazione di potere della propria giovane storia, stante una volontà costante di accentramento governativo nazionale.

Sintomatica del polso della situazione, dunque, è stata proprio la coeva decisione di tutti i Presidenti di Regione, grandi elettori, di recarsi presso l’uscente Presidente Sergio Mattarella per rappresentare la necessità di una sua riconferma, immagine forte che segnala tutta l’urgenza di autonomia di governo del territorio che gli stessi, già eletti mediante un sistema maggioritario puro, richiedono.

E allora, delocalizzare i personalismi, i prestigi dei singoli che affascinano le masse mediatiche, le vocazioni maggioritarie di capi partito e dei propri partiti contro-congiuranti, su un asse binomiale tra governo di territori autonomi e Presidente della Repubblica, eletto anch’esso mediante un sistema maggioritario puro direttamente dai cittadini, una riforma dunque apertamente presidenzialista, ma legittimata dalla Costituzione, potrebbe significare al contempo individuare e sciogliere il bandolo della matassa che ingarbuglia le file del Parlamento Italiano, fuoriuscire da uno ‘stato di eccezione’ interno perenne, restituire a quest’ultimo il proprio ruolo centrale di sintesi politica che solo in un riformato sistema elettorale proporzionale potrà esprimere al massimo delle proprie possibilità la tutela degli interessi collettivi e delle minoranze.

Un segno di maturità della classe politica e dirigenziale, la quale smetterebbe finalmente di nascondersi dietro la  figura pregnante di mitologa einaudiana di un Presidente della Repubblica notarile e debole, per assumersi la responsabilità di cristallizzare una volta per tutte a livello costituzionale le prassi difformi che col tempo sono divenute prerogative del Capo dello Stato.