Borneo | Prima puntata

17 luglio

Ogni nascita è realizzata attraverso uno stress psico-fisico. Ogni volta si attraversa la strettoia degli interrogativi. Ogni volta un “passaggio” è un taglio di cordoni ombelicali. La materia si organizza in modo da rendere possibile il passaggio. Non bisogna opporre resistenza. Il moto naturale delle cose è agevolato dalla disposizione positiva all’esperienza. La paura è ostacolo ed è la migliore scusa per evitare i cambiamenti. Lo stato delle cose cambia continuamente, che ci si lasci guidare dai timori oppure no. Notoriamente, essi sono dei pessimi timonieri.

Entrare, attraversare gli eventi, muoversi assecondandone il verso, è la garanzia di miglior successo.

L’aereo si muove, sorvolerò il mare meridionale cinese e toccherò con i miei stessi piedi il Borneo, questo crogiolo di immaginazione, ambizioni di giungle sognate da lungo tempo. Non mi resta che lasciar andare…

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Kota Kinabalu mi accoglie. Noto colori diversi. La natura è “ultra”, magnificenza di foglie, nuvole stagliate su un cielo che sembra uscito da un quadro dell’impressionismo.

Tutto è più piccolo qui a KK, la capitale di questa regione semi-autonoma del Sabah.

Comincia qui il mio vero anno sabbatico, nel Sabah. Lambìto dal mare meridionale cinese ad ovest e bagnato a nord dal mare Sulu, che contende alle Filippine, il Sabah è terra di parchi e di foreste pluviali. Qui nidificano tartarughe, è la terra degli Oran-gutan, degli elefanti.

Proverò a godere tre giorni intensi di mare su un lembo di sabbia nel mare cinese: Pulau Mantanani (pulau, isola). Credo che non ci arrivi nemmeno internet. Una sosta per non fare, per ascoltre i silenzi, per fare incetta di scene acquatiche di color azzurro. STOP. Via solo ai pensieri, alla musica del vento, al suono delle acque marine. Ed alle parole impresse su carta. Quelle da leggere, quelle da scrivere.

Un’altra pagina quella che s’apre domani alle 7.15

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18 luglio

Mantanani è un’isola breve.

Un boccone del mare venuto fuori per indigestione, forse.

C’era, per fortuna; alla fine c’era.

Questo lembo di terra ci ha accolti grondanti d’acqua. Il piccolo scafo ha lottato col nervosismo del mare. Non so precisamente cosa sia stato ad urtare la sua suscettibilità. Era irritato, lasciava intravvedere la profondità delle sue rughe.

E bagnava, Dio se bagnava.

Il timore lascia immobili. Bisogna solo stare attenti all’osso del collo, mentre il corpo sbatte insieme allo scafo sulla pelle irritata del mare. La migliore idea mi è sembrata quella di chiudere gli occhi per non vedere quelle immagini scure di un manto bruno che, in continuazione, cambiava violentemente la linea di orizzonte. È così che si annunciano le tragedie, quelle che non si riescono più a raccontare.

Sei lì ferma, immobile, il respiro si fa lento per dominare la paura. Doccia in viso a vari nodi all’ora. Scopro che è piacevole sentire il sapore di quella pelle liquida che brontola. È salata ed è calda.

Questo mare cinese è caldo. Lo sento ora nei piedi mentre solco la sabbia. Tutt’intorno al verde, una spiaggia di sabbia orlata di palme da cocco. Il mare scava, toglie spazio, erode le radici di queste creature dall’acconciatura che rispetta un verso, quello ordinato dal vento imperante. Come gengive che si ritraggono, le radici restano visibili sotto il lobo che sorregge la struttura. Le spiagge sono disseminate di loro antenati a cui è già accaduta la sorte cui vanno incontro gli alberi dalle gengive scoperte. Scheletri bellissimi, privati da poco della loro funzione originaria, eppure già adulti nella loro nuova vita. Sì, nuova. Il legno si rifà il trucco. Le acque lo levigano, lo sbiancano, lo risistemano. Affascinante arredo marino.

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Su questo fazzoletto di sabbia c’è un villaggio di pescatori. Quasi null’altro, oltre all’alloggio garantito ai coraggiosi turisti che raggiungono l’isola che offre immersioni come principale attività.

Il giro dell’isola si compie a piedi in un’ora. Sessanta minuti in cui la sequenza dei passi incontra sabbia, acqua salata, tronchi, scheletri di cocco caduti dalle palme prospicienti.

Ospiti sgraditi, tanti, tantissimi, gli scheletri del “progresso” importato. Il merletto dell’isola è fatto anche di bottiglie di plastica. Migliaia. Da lontano sembrano elementi di flora locale. L’idillio dura poco, presto lo scenario diviene inquietante. Noci di cocco e bottiglie di plastica. E pensare che tutto questo è servito solo, in precedenza, a contenere pochi litri di acqua! Qual è il prezzo delle comodità moderne? Non basterebbero i numeri dei disavanzi di tutti gli stati del mondo a quantificarlo. Non si sa da dove arrivino: dal mare, dai turisti, dagli abitanti del villaggio? Chi è che non è interessato al proprio benessere? A chi questo scenario è indifferente? Solo la fotografia digitale può salvare queste scene, solo così questi splendidi orli potranno essere “ripuliti”.

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La sequenza dei passi attraversa un villaggio. Un crogiolo di case, tutte palafitte, sabbia, arnesi, barche dismesse, roba accatastata, panni sventolanti. Una scena ricca di particolari. Baracche di legno sistemate casualmente sulla sabbia. Sistema urbanistico inesistente. La composizione risulta confusa. Si respira uno stato brado, essenziale. Sereno, però. Qui la gente sorride, saluta, chiede il nome agli stranieri. Ho trascorso con loro del tempo a parlare la lingua comprensibile a tutti, trasversalmente; quella fatta di sorrisi, di gesti semplici. I bambini sembrano la ricchezza maggiore. Sono loro ad accoglierti venendoti incontro o sorridendoti semplicemente. Li vedi giocare con tutto ciò che c’è: una barca capovolta sotto cui si nascondono e da cui escono uno alla volta; giocano con la vegetazione, con le pietre, correndo sulla sabbia, col pallone, unico elemento di gioco “riconoscibile”. È imbarazzante il pensiero del numero esagerato di giochi in cui sguazzano i nostri bambini. Provo un po’ di imbarazzo anch’io, fornita di k-way, di macchina fotografica, di iPhone. Vorrei chiedere scusa per i quintali di plastica che arriva dall’ovest. Poi intuisco che quell’habitat puntinato di PVC è per loro sopportabile, loro stessi lo alimentano con le proprie abitudini. Ho visto buttare in mare involucri di cartone inservibili, buste di plastica con contenitori in plastica e polistirolo monouso in cui sono soliti vendere il cibo da asporto. Qualcuno che, dalla terra ferma, è tornato con cibo comprato e pluff, c’è il mare che monta il suo turno di netturbino (ora si chiama operatore ecologico).

Il nervosismo del mare diviene broncio. Raggiungo a piedi l’estremità sud ed è tramonto. Sono solo le 19. Niente di buono, si intuisce, per le ore successive.

Vado a letto sull’albero.

(continua)

[ Foto Mirella Caldarone ]