Non aspettatevi storia, ma delle storie. Se poi siano anche vere è domanda oziosa e inutile

Immaginate un attore teatrale prima di entrare in scena. L’inquietudine di chi deve esibirsi, di chi deve calarsi nei panni di un personaggio, di chi deve rappresentare il dramma su cui va a fondarsi la parte decisiva della rappresentazione. La quarta parete è annullata, il viso dell’attore ti attanaglia, ti cattura. La parete è spinta indietro, e poi demolita. Nasce così un dialogo ininterrotto fra il protagonista e il pubblico, ora drammatico e ora comico, in un correre continuo fra eventi storici immaginati e verosimili, fra pensieri immaginati e fatti storici riscritti e forzatamente condensati in pochi frammenti. Un percorso pericoloso, che attira simpatia più che repulsione. Un Joker prestato alla politica, che racconta i dissidi interiori e le scelte improvvise, che cammina sempre e comunque impettito, senza mai essere diverso da quanto visto in video e foto d’archivio. Immaginando un ragazzo o un adulto che la storia non l’ha mai considerata, ecco che il Benito Mussolini di M, il figlio del secolo appare quasi condensare i luoghi comuni di tutte le epoche, più consegnato al presente come un pericolo sempre nuovo e accattivante, che a un passato da dimenticare. Seguirlo nella nascita del Fascismo, nelle proprie intenzioni dovrebbe essere inquietante ma potrebbe risultare invece accattivante, come in molte serie sulle piattaforme o televisive appaiono mafiosi o camorristi. Ecco che la nuova serie di Sky con la regia di Ian Wright, che intende dare un affresco di un periodo complesso della storia italiana quale quello dell’avvento del Fascismo, è decisamente una occasione persa. Questo se la si volesse guardare con l’intento di comprendere meglio gli anni dell’avvento del regime fascista. Non siamo ai livelli de Il Giovane Mussolini, serie degli anni Novanta della Rai, dove il futuro Duce era interpretato da un buon Antonio Banderas e Rachele Guidi da una capace Claudia Koll. Se lì si comprendeva bene la radice socialista massimalista di Mussolini fra Svizzera e Forlivese, fra la Balabanoff e Serrati, fra dispute politiche e amori clandestini fino allo scenario del distacco dal Partito Socialista con il giungere del primo conflitto mondiale, nella serie attuale questo è alquanto incomprensibile per chi non ha mai studiato storia. Non si comprende infatti come Mussolini giunga alla nascita del Fascismo. Un ineluttabile destino, quasi provvidenziale, sembra portarlo al centro della scena, senza ciò che aveva anticipato la nascita dei Fasci di Combattimento. Ciò è dato per scontato, non esiste e non interessa. Quasi a ostracizzarne la nascita, a dimenticarla.

Se nella serie anni Novanta vi era fra i consulenti la figura di Renzo De Felice, ben visibile in alcune parti che sembravano seguire a piene mani il suo testo Mussolini il Rivoluzionario, qui il contributo storico è minimo. E non potrebbe essere altrimenti, se si pensa che la radice di M, il figlio del secolo è il romanzo omonimo scritto da Antonio Scurati, che comunque non è seguito nemmeno adeguatamente ma è piuttosto ridimensionato.

Certo, si dirà che non è compito dell’arte cinematografica insegnare storia, in un periodo in cui insegnarla è una impresa ardua e complessa, fra riforme e revisioni dei programmi scolastici, fra tagli delle ore o apparentamenti curiosi come la geostoria. Ma non è banale chiedersi se sia per forza necessario riempire di scene di violenza raccapricciante, di pornografia effettiva o allusiva per interi minuti l’immaginario dello spettatore. Una centrifuga di elementi e fasi, messi in moto da una sceneggiatura a tratti irriverente e in altri stucchevole. Ecco ora il dialogo con lo spettatore, dove Mussolini si toglie ogni maschera, diviene prestigiatore, il mago della politica, in cui sente lo scorrere del tempo e come gli animali annusa il momento buono. Ecco poi il confronto con il ras di turno, duro e crudo, a inscenare la crisi politica di un momento o una scelta da effettuare. Poi ci si ritrova nel mezzo di una scena di violenza antisocialista o anticomunista, con la critica al Governo in carica, ridicolizzando ora Nitti, ora Giolitti e ora Facta. Ecco anche l’esperienza del carcere dove Mussolini, novello Van Gogh, dipinge scenari di martirio che si associano al funerale carnascialesco inscenato dai socialisti, all’indomani della sconfitta elettorale del 1919. La storia si affaccia a momenti, lucidamente. Ma sono specchietti per le allodole. Allora ecco, puntuale, il momento dell’avvinghiamento sessuale con la donna di turno (come l’intellettuale Margherita Sarfatti che sembra parlare come la Vanoni) e la routine familiare dell’uomo in pantofole che non è umano.

La colonna sonora è incalzante, a volte anche troppo, tanto da coprire alcuni dialoghi. È quasi scontato individuare in questo continuo affacciarsi di tesi, antitesi e sintesi, retromarce e avanzamenti un affastellarsi di fatti, eventi e personaggi mal comprensibili dallo spettatore, asincronici e sparsi. Marinetti, ad esempio, non è l’intellettuale visionario del Manifesto del 1907. Appare più un personaggio da circo, pur se effettivamente si fa trasparire l’originalità del personaggio, anticonformista ma in abiti improbabili. Ma la serie segue la storia, almeno in alcuni passi? Proviamo a rispondere con un esempio. Scrive Emilio Gentile a proposito dei Fasci di Combattimento che

“Mussolini era politicamente un isolato quando decise di fondare i Fasci di Combattimento a Milano, il 23 marzo 1919, in una riunione cui parteciparono una cinquantina di persone, interventisti e reduci provenienti dalla sinistra rivoluzionaria o repubblicana. La nascita del nuovo movimento passò quasi inosservata e l’unico giornale a parlarne diffusamente fu il Popolo d’Italia”[1].

Ora, nella prima puntata, l’isolato e futuro Duce della storia sembra invece al centro della scena con un gruppo nutrito di Arditi. Luca Marinelli, attore pur istrionico e capace, appare più il Guzzanti di Fascisti su Marte o il Loris Batacchi dei film fantozziani. Sacrificato in un personaggio che, come ha affermato gli va stretto essendo cresciuto in una famiglia antifascista, lo rende assurdo, paradossale. La cosa è stata riscontrata da molti utenti anche nei commenti Youtube e a dire il vero non si può che dare ragione a questa critica spicciola e semplice. Un altro esempio di incoerenza, tanto da suscitare un altro sorriso giunge nelle scene che rappresentano un samurai vicino a D’Annunzio, al secolo Harukichi Shimoi, poeta giapponese, docente universitario a Napoli che effettivamente fu fra gli Arditi e nell’impresa fiumana, che appare vestito come in un manga, tanto da gettare discredito su una figura storica pur marginale ma interessante di intellettuale e che soprattutto parlava un perfetto napoletano.

Assurdo risulta il Mussolini di ritorno dall’incontro con il Vate a Fiume, vestito da improbabile pilota, forse ripreso dalle foto proibite del Duce che il Franzinelli anni fa raccolse in un ottimo testo della Mondadori. Comico, a tal riguardo, è il “Viva la bora” gridato da Cesare Rossi, degno dell’avanspettacolo o da teatro dell’assurdo dopo che Mussolini racconta di aver affrontato tempeste in volo. La tragicità, nella serie, più che nelle scene efferate di violenza, anche psicologica (da film horror la sequenza dell’utilizzo dell’olio di ricino, con un pupazzo furbescamente utilizzato a rappresentare una violenza fisica) è in Rachele Guidi, interpretata da Benedetta Cimatti, che nella realtà storica era donna molto forte e che non aveva timore di rispondere a muso duro al marito, ma che sembra presa da scene che strizzano l’occhio più a I Miserabili di Hugo che alla storia effettiva. Trasandata, pervasa da una follia ai limiti dell’impresentabile, pronta anche fare a schiaffi con la Sarfatti, prigioniera di un carcere amoroso che la distrugge psichicamente..

Marinelli a pensarci bene appare più il Ben Gazzara del Camorrista di Tornatore che un personaggio politico. Sembra guidare torme di camice nere in modo quasi compatto, che pendono dalle sue labbra, salvo poi (e qui in parte si segue la storia vera) strizzare l’occhio a D’Annunzio. Sparse qua e là ci sono amenità assurde. Vittorio Emanuele III appare una macchietta quando, nel discorso alla Camera, fa fatica a salire sul trono che sembra più un seggiolone per bambini. Il simbolo della falce e martello poi, nato per rappresentare il successo della rivoluzione russa del 1917, viene anticipato all’autunno 1914, quando Mussolini abbandona la direzione dell’“Avanti!”. Insomma, un pot pourri che non parla di storia ma più di attualità e dove l’opera di debunking, fra errori, cronologie errate, luoghi e fatti non coerenti sarebbe quasi infinita.

E torna allora la domanda. Quando si racconta la storia è necessario guardare alla responsabilità di cosa si racconta o per una libertà narrativa è giusto anche aggiungere cose mai esistite, tagliare parti rilevanti, ridurre aspetti più storici per inserirvi aspetti piccanti ed erotici per attrarre il pubblico? Ricordiamo che il Mussolini degli esordi del fascismo è prigioniero politico di quadri del suo movimento e partito più oltranzisti. I Farinacci, i Balbo, i De Vecchi, i Forni (che creò un partito alternativo per poi tornare all’ovile) erano figli di un pensiero rivoluzionario più del futuro Duce, che cercava (ad esempio nel 1922) di intrattenere trattative con il Governo Facta, tanto da essere stati vicini a un accordo per vari ministeri e sottosegretari. Il primo fascismo in realtà era molto ‘rosso’ e poco nero, tanto che nei comunicati della Prefettura di Milano appena finito il primo conflitto mondiale Mussolini guida gruppi di ex combattenti che portano bandiere rosse e gridano ‘Viva Lenin’. Questi aspetti mostrano quanto sia complicato fare storia nelle fiction attuali, che devono tenere desta l’attenzione del pubblico, abituato al tutto e subito e dove non si attendono i tempi morti, filmicamente, di dibattiti politici e di dialoghi istituzionali. Leggere gli eventi attualizzandoli, per mirare più a chi è ora al Governo piuttosto che a raccontare i fatti di quegli anni fra il 1919 e il 1922, significa seguire gli errori commessi su Churchill (L’ora più buia sempre di Wright ha errori da matita rossa), su Napoleone (il film dello scorso anno è impresentabile) e su Mussolini stesso riguardo al 25 luglio del 1943. Alla fine, non aspettatevi storia da M, il figlio del secolo ma più delle storie. Se poi siano anche vere è domanda oziosa e inutile. Al pubblico piace il nulla, quindi a che serve l’essere delle fonti?

[1] Emilio Gentile, E fu subito Regime, Laterza 2012, p.8.


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Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.

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