
“Ho l’impressione che il mio mondo stia tramontando, Lloyd”
“Spettacolo affascinante. Non trova, sir?”
“A me sembra solo triste, Lloyd”
“Se mi permette, sir, un tramonto è la migliore cosa chepossa accadere a un giorno tanto luminoso”
“La notte però spaventa…”
“Sir, ha paura del buio solo chi non ha fiducia nell’alba”
“E sarà un nuovo spettacolo da mozzare il fiato. Vero, Lloyd?”
“Il più bello di sempre, sir. Il più bello di sempre… ”(Simone Tempia)
Ero bambina quando mia madre mi diceva che la terra gira così velocemente da sembrare immobile.
Ed ero bambina quando mi chiedevo come ci si potesse sentire stando nelle condizioni di quella palla. La immaginavo talmente presa dal suo movimento e anche incompresa per quello che invece sembrava. Certo, mi dicevo, lo sappiamo che non è vera la sua immobilità, ma fra quello che si sa e quello che si percepisce deve esserci una bella differenza. O almeno così mi sembrava.
Del resto ero una bambina: vero è che se da sempre avessi pensato meno, avessi posto meno domande e me ne fossi fatta meno, avrei vissuto in modo più riposante e non mi troverei qui a dover dire che sì, ci sono cose che sono come domande. Passano giorni, oppure anni e poi la vita ti risponde.
Come ci si sente al posto di quella palla?
Come molti di noi oggi: pensavamo di avere vite frenetiche e non era una menzogna. Pensiamo, altresì, che la frenesia sia quintuplicata ex abrupto eppure, a guardare da fuori, il leitmotiv è che siamo fermi.
Fermi, immobili, osservabili, dove non c’è nemmeno una foglia che sia priva di movimento continuo, forsennato, spesso ansioso, continuamente variabile, in preda ad un equilibrio completamente instabile.
Ora le giornate che si susseguono alla velocità della luce e spesso non lasciano il tempo di comprenderne e metabolizzarne il valore, subito dopo i giorni in cui prenderesti le ore e le schiacceresti sotto ai piedi perché più le lancette scandiscono il passare del tempo e più ti pesa tutto quello che avevi e che ti hanno strappato, per il tuo bene. E ti prenderesti a schiaffi per tutte le volte in cui te lo sei strappato da solo, peccato che un buon motivo non lo avessi: no, nessuno dei motivi che ritenevi validi per non fare quello che avresti potuto era davvero così valido per non farlo. Non ne sentiresti così tanto la mancanza, altrimenti.
La carrellata di cose rimandate o messe in attesa non finisce più: tante, troppe cose lasciate a lievitare per un tempo indefinito, nell’illusione fosse infinito, mentre la gente muore da sola; i familiari non possono vedere i loro cari neppure nella bara e piangono disperati poiché non hanno potuto esserci nemmeno nel momento che ha preceduto l’intubazione; le polmoniti, soldati dell’esercito senza scrupoli di questa terza guerra mondiale, avanzano indefesse; uomini bardati con le piaghe in faccia tentano di difendere ogni vita che sta andando via.
Sembra che Hitchcock e Dario Argento abbiano scritto una sceneggiatura a quattro mani e un qualche incantesimo di magia nera le abbia dato vita.
Niente, niente è fermo, troppi di noi lo sanno e, proprio come quando ero bambina, incolpevolmente non possono percepirlo. Io ne sono piena parte e me ne accorgo in differita. Fosse anche di poche ore, ma pur sempre in differita, quando penso che i primi ad andare via sono stati quelli della generazione migliore che senza studi ha messo su i figli che sono i nostri genitori; li ha sostenuti senza mezzi, ha visto la guerra e lavorato come animale da soma, per arrivare ad oggi rappresentando il nostro scrigno di incompresa saggezza. La saggezza che più di una volta ha salvato la nazione ed ogni giorno salvava i suoi nipoti, nostri figli. Una generazione che, come le altre, muore sola, senza addio e senza i suoi bambini, rimasti senza nonni.
Cosa resta? Senza mentire potrei dire che resta l’inutilità, ma senza ingannare dovrei anche dire che rimane un indomabile istinto ad inventarmi di sana pianta, ogni giorno, qualsiasi cosa io non sappia fare e non solo per imparare come vada fatta, per dirla con Van Gogh, ma perché porti frutto.
E resta un concetto che non è nato nella mia testa, non in modo così evidente. È stata un’amica virtuale, discreta ed invisibile a scriverlo, forse la ricordate: la signora Elisa Zapparoli.
Il coronavirus mi ha insegnato a non rimandare.
Allora che sia questo la Pasqua 2020: l’attesa della nuova vita dove nulla di quello che sentiremo avere un peso specifico ed un valore, quale che sia, sarà mai più rimandato, nella consapevolezza che potrebbe essere sprecato.
Non un’idea, ma un fatto.
Il rispetto del tempo, l’orologio della vita: donata, salvata, riconosciuta, una, solo una ed equivalente per tutti (tutti, tutti, tutti) gli esseri viventi: sacra.
Perché “quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio… Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato” (Acca-ruki Murakami).