New York, 8 Aprile 2020

L’albero davanti alla finestra del soggiorno caccia le prime foglie. Timide escono fuori, ma solo su un ramo, quello che prende i raggi di sole del pomeriggio che fanno a pugni per passare tra la fessura dei due palazzi di fronte.

Il resto dell’albero dorme all’ombra. Mentre la primavera proprio non fa caso alla paura, con la primavera, invece, l’aria si riempie di paura. I malati a New York aumentano, dentro Central Park hanno costruito ospedali da campo, la cattedrale di St. Johns è stata riempita di letti per malati, e una nave ospedale è arrivata per far fronte all’ondata. La caldaia fuori dalla mia camera da letto mormora incessante sfiatando un rombo perpetuo tutta la notte. Ma ad un certo punto a mattina si ferma, e mi sveglio per l’improvvisa mancanza. È il silenzio.

Sotto la mia finestra, sulla 121ma strada passa un omino incappucciato in bicicletta elettrica. Mascherina, guanti e, dietro la schiena, un bauletto termico per tenere il cibo al caldo. Insieme ad una armata di immigrati legali e non, continua a correre per le strade vuote, tra cucine di ristoranti barricati e atrii di portieri impauriti. Poggiano le pizze calda davanti agli appartamenti, suonano campanelli frettolosamente e si girano per non incontrane i padroni. I clienti dietro la porta aspettano che i fantasmi vadano via. Massa di spiriti dolenti che sfama quella New York che non ha ritrovato il piacere della cucina. Prima sì, nel ritmo allucinante non c’era tempo, ma ora non ci sono scuse. Gennaro su Youtube spiega come impastare. Sento dai miei amici che in Italia scarseggia il lievito, qui invece è sparita la carta igienica. In foto dall’Italia vedo carrelli di farina, qui invece file per comprare armi automatiche.

Ma uscire o non uscire di casa non sembra essere una decisione del tutto volontaria. La settimana scorsa l’autista di Uber che mi ha accompagnato a casa dopo spesa da cambusa mi ha detto che Downtown era deserta. Soho, Chelsea, Nolita, East Village – non c’era nessuno in giro. Vagava in macchina per quella parte della città ma non riceveva chiamate. In controtendenza, ad Harlem e nel Bronx, quartieri notoriamente meno abbienti, la richiesta di taxi è costante. Mi ha spiegato che questa differenza esiste perché mentre nei quartieri ricchi gli abitanti possono permettersi di non uscire di casa, nei quartieri meno fortunati si continua a lavorare. Non lavora solo la sanità, ma anche il sottostrato che fa sì che il pachiderma continui a muoversi. Dicono che questa malattia prenda tutti, ma qui è probabile che prenderà coloro che non possono permettersi il lusso di rimanere a casa. Latini e afroamericani contano già per un gran fetta dei malati.

Il governo Americano non ci ha chiusi dentro e lascia la decisione in pasto al buonsenso. La palazzina dove vivo si affaccia su Morningside Park, a confine con Harlem. Dentro il parco una coppia gioca a basket, drappelli di anziani passeggiano, bambini corrono appresso a una palla. Ho sentito più di una volta rivendicare la libertà di decidere se uscire o meno. Ma è davvero libertà? Se si metta in pericolo la libertà altrui uscendo, e quindi aumentando la possibilità di contagio, si crea di fatto una non-libertà per coloro che, per necessità o dovere, sono sotto gli elementi. Individualismo che dilaga da questa parte, come se l’immunità fosse una questione di appartenenza. Eppure le informazioni su quello che succede in Europa viaggiano veloci.

New York, nelle sue mille facce, si mostra anche umana. Ogni due giorni sul telefono arriva una allerta che chiede a chiunque possa contribuire di farsi avanti. E quando la città prende il volto degli 80.000 volontari che si sono riversati negli ospedali di New York al collasso, diventa struggente. Il governatore dello stato di New York Cuomo chiama al coraggio, e dice che se sei a New York vuol dire che sei un duro, e che insieme ce la faremo. Alle sette di sera si esce dal balcone per sbattere padelle e pentoloni in un inno di ringraziamento a quelli che nell’ospedale a pochi isolati da me sono al fronte.

Come va in Italia? Questa volta veniamo percepiti dal mondo, che di solito ci addita come buffoni approfittatori e razzisti (spesso con ragione), come un popolo ligio e ordinato. Governi stranieri guardano a noi per capire che fare. Trovo serenità nel pensare che le domeniche passate a pranzo dai nonni, che salutare un vicino con nome proprio, che ricevere fiducia dal panettiere per un credito, e che tante azioni che diamo per scontate, formino in noi un sentimento di comunità, non sempre tangibile, ma che in tempi bui ci aiuta per quel che può.

Da casa ricevo foto di asparagi selvatici e ricordo le passeggiate con la nonna Carmen per raccoglierli. Sento nella mente il sapore dolce e aspro. Sebastiano e Valeria mi chiamano mentre camminano per la Murgia al tramonto e mi fanno vedere la campagna verde. Quanto è lontana. Valeria coglie fiori appena sbocciati. Li guardo entrambi sorridere nella luce calda del tramonto e penso che vorrei essere lì con loro.

I raggi illuminano il palazzo di fronte incendiando i mattoni rossi. Il cielo è blu. La quarantena inizia ad essere una abitudine, la nostalgia di casa invece no.


1 COMMENTO

  1. È un racconto cosi empatico della realtà che costringe il lettore ad abitare gli stessi pensieri, lo stesso stato d’animo e a vivere la stessa realtà di chi scrive. Il virus non ha confini, ma l’attitudine ad essere “comunità” ha una sua geografia sociale. L’augurio che New York, come ogni città, paese, villaggio del pianeta, possa uscire fuori da questo periodo di realtà sospesa, da questo limbo di incertezza, ed impari, una volta fuori, magari guardando il lavorio silenzioso e potente dei nuovi eroi ai tempi del coronavirus, cosa significa realmente “effetto comunità” . Auguri

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